Gli Argonauti – il Mito

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liberamente adattato da: Enciclopedia Italiana (1929)

ARGONAUTI (‘Αργοναῦψαι, Argonautae).

La narrazione più ampia e più completa che la letteratura greca conservi della spedizione degli Argonauti è quella contenuta nel poema in quattro libri di Apollonio Rodio, Le Argonautiche.

Pelia, usurpatore del trono di Esone, padre di Giasone, riceve dall’oracolo un responso che gli toglie la pace: si guardi da colui che gli comparirà davanti con un solo piede calzato, poiché vuole il destino che per opera di colui egli perisca.

L’uomo tanto temuto un giorno compare, ed è Giasone; ma Pelia riesce a liberarsene mandandolo a riconquistare il vello d’oro: in quella spedizione piena di pericoli, Pelia spera che Giasone possa trovare la morte. Accorrono a partecipare all’impresa rischiosissima i più insigni eroi del tempo: Eracle, Telamone e Peleo, Echione ed Erito, Zete e Calai, Castore e Polluce (Polideuce), Ila e Linceo, Eufemo, Meleagro, Anceo e molti altri. Si dice cinquantacinque in tutto, compreso Giasone e compresi i vati Orfeo, Mopso e Idmone. La nave Argo è costruita da Argo sulla base dei consigli di Atena.

Gli Argonauti si radunano a Pagase, e da lì partono nella commozione generale, in particolar modo di Alcimeda e di Esone, i vecchi genitori di Giasone.

Eracle, unanimemente designato capo della spedizione, rinuncia a favore di Giasone.

Gli auspici sono favorevoli; il soave canto d’Orfeo accompagna l’inizio del viaggio. Dopo qualche giorno di navigazione prevalentemente costiera, gli eroi giungono a Lemno, dove sono cordialmente ricevuti dalle donne dell’isola che avevano fatto strage dei loro uomini. Gli Argonauti indugiano nell’isola in lieta vita sinché Eracle, il quale con alcuni pochi altri non aveva voluto prender parte a quella poco eroica parentesi, riesce a indurli alla continuazione del viaggio.

Si tocca Samotracia, ove gli Argonauti s’iniziano ai misteri dei Cabiri.

Passato l’Ellesponto essi giungono ad Arctonneso ove sono ospitati da Cizico, re dei Dolioni.

Sul Dindimo compiono un sacrificio a Cibele.

Arrivano poi nel paese di Cio ove Ila è rapito dalle Ninfe: Eracle per cercarlo si divide dal resto dei compagni. Il secondo libro inizia con l’episodio di Amico re dei Bebrici, che è vinto nella lotta da Polideuce: all’entrata del Bosforo gli Argonauti trovano Fineo, che liberano dalla persecuzione delle Arpie ottenendone in compenso preziose profezie sul loro viaggio avvenire.

Passate le Simplegadi con l’aiuto di Atena, giungono presso l’isola Tiniade dove vedono passare Apollo e gli offrono un sacrificio; toccano poi il promontorio Acherusio con l’antro orrendo da cui si scende all’Ade.

Nel paese dei Mariandini sono cortesemente accolti da Lico. Morto il nocchiero Tifi, ne prende il posto Anceo che guida i compagni a nuove terre e a nuovi popoli: il Termodonte e le Amazzoni; i Calibi lavoratori del ferro; i Tibareni e i Mossineci con le loro strane abitudini; l’isola di Ares coi suoi terribili uccelli: incontro degli Argonauti coi figli di Frisso che tornano con loro ad Ea.

Appaiono, dopo toccate altre terre, le vette del Caucaso: gli Argonauti vedono l’aquila che strazia Prometeo e odono le grida dell’infelice Titano. Arrivano quindi al Fasi e ad Ea, la città di Eeta, il custode del vello.

Il terzo libro, il libro di Medea, è poeticamente il più bello. Le accoglienze di Eeta agli Argonauti, che vogliono prima tentar di ottenere il vello con le buone, sono aspre assai e poco promettono di buono, ma, per volere di Era e di Atena, Medea, l’espertissima maga figlia d’Eeta, s’innamora di Giasone, il quale con l’aiuto di lei supererà le prove terribili impostegli da Eeta.

Meravigliosa e minuziosa è la pittura sia del divampare della passione nel cuore di Medea sia dei sentimenti in lei contrastanti. Giasone s’incontra con Medea nella notte presso il tempio d’Ecate: seguendo i consigli di lei riesce a compiere al cospetto di Eeta le sovrumane imprese: doma dapprima i tori spiranti fiamme e giunge poi a vincere i giganti che nascono dai denti del drago.

Eeta ritorna alla città interrogandosi su come poter sterminare gli Argonauti.

Il quarto libro narra il ritorno degli eroi. Medea comprende che ormai il padre deve sospettare fortemente di lei, e dopo lunga e angosciosa esitazione si decide finalmente alla fuga con gli Argonauti. Grazie agli incantesimi di Medea, gli Argonauti s’impadroniscono del vello custodito da un terribile drago e quindi, rapidamente, ripartono. Memori della profezia di Fineo, che gli aveva suggerito di non ripassare per le Simplegadi, gli Argonauti imboccano l’Istro e giungono al mar Cronio, ma ne trovano sbarrata l’entrata dai Colchi che, decisi a sconfiggerli, si erano divisi in due squadre, delle quali l’una aveva proseguito per le Simplegadi e l’altra, per un ramo più corto dell’Istro, li aveva sopravanzati.

Per procurare la salvezza propria e degli Argonauti, Medea acconsente all’uccisione del fratello Absirto. Gli Argonauti, giungono nell’Eridano, da cui passano al Rodano, e poi al mare Ausonio: qui, a Eea, dimora di Circe, sorella di Medea, Giasone e Medea sono purificati dall’uccisione di Absirto. Passaggio delle Plancte: arrivo a Drepane, il paese di Alcinoo, dov’è giunta l’altra squadra di Colchi, che richiede da Alcinoo la consegna di Medea; ma poiché questa è divenuta proprio in Drepane sposa di Giasone, Alcinoo rifiuta la consegna.

Nelle Sirti e in Libia gli Argonauti soffrono ancora angosce terribili; ma con l’aiuto del dio della palude Tritonide, che porge ad Eufemo la simbolica zolla che farà dei discendenti d’Eufemo i colonizzatori e signori della Libia, riescono a riguadagnare il mare aperto, per il quale, dopo non molte altre pericolose avventure, tra cui quella del bronzeo gigante Talo, riescono finalmente a fare ritorno a Pagase.

 

Prima di essere così ampiamente svolta da Apollonio Rodio, la leggenda degli Argonauti era stata trattata da numerosi autori durante l’evolversi della letteratura greca. Già Omero conosce Argo “che a tutti sta a cuore” e Giasone e Pelia ed Eeta e il frutto delle nozze di Giasone con Issipile in Lemno, e così via.

Più particolareggiato sviluppo della leggenda si coglie dalle varie opere esiodee e dai frammenti dei ciclici. Accenni numerosi ad essa troviamo in parecchi lirici: splendido lo svolgimento del mito argonautico nella meravigliosa Pitica IV di Pindaro in onore di Arcesilao di Cirene, che si pretendeva discendente del mitico Eufemo.

Ne trattano Antimaco di Colofone e più tardi i poeti ellenistici, tra cui in particolar modo Teocrito col bell’idillio XIII, ove si svolge il racconto del ratto d’Ila da parte delle Ninfe, e col XXII in onore dei Dioscuri (lotta fra Amico e Polideuce). Se ne occupano infine e logografi e storici e da ultimo i numerosi compilatori di manuali mitografici, tra i quali a noi è giunto lo pseudo-Apollodoro.

All’età bizantina appartiene un poemetto epico Argonautiche in 1384 esametri, giuntoci sotto il nome d’Orfeo. Nella letteratura romana è da ricordare specialmente C. Valerio Flacco Balbo Setino che nel sec. I d. C. compose sulla scorta di Apollonio Rodio un lungo poema epico non condotto a termine: gli otto libri ch’egli scrisse conducono la narrazione sino all’episodio di Absirto.

La leggenda argonautica non nacque solo dai racconti tradizionali dei più antichi viaggi dei Greci alla volta del Ponto; a base di essa sta pure un mito naturale, mito agrario secondo gli uni, solare secondo gli altri: non è improbabile una fusione dei due miti naturali. Col diffondersi dei viaggi che gli arditi navigatori greci compirono all’epoca delle prime colonizzazioni verso le coste della Propontide e del Ponto, gli elementi di avventura si unirono agli elementi mitici e finirono col sopraffarli. E quanto più la colonizzazione si venne a diffondere, tanto più la leggenda argonautica, diventata quasi un simbolo dell’audacia dei navigatori e colonizzatori ellenici, estese il proprio dominio.

Infinite sono le tradizioni locali che su quella leggenda s’innestano, e molte assai ricche d’interesse.