Big e Blue, un mare di avventure

Un racconto inedito di Erika Carta per il Big Blue Festival 2018, con le illustrazioni di Sara Camboni.

 

C’era una volta un mare di acqua cristallina che si divertiva a spumeggiare con le sue onde, facendo il solletico alla riva e portando via con sé milioni di minuscoli granelli di sabbia dorata.
Era una vastissima distesa turchese che si estendeva in lungo e in largo, dove brillavano tanti puntini luminosi di sole.

Laggiù, nelle profondità sempre più azzurre vivevano due piccoli pesciolini argentati.
Erano gemelli e si chiamavano Big e Blue.
Avevano caratteri molto diversi.
 
Big era spavaldo, coraggioso. Non stava fermo proprio mai, nuotava a più non posso, velocissimo, a destra e sinistra. Non aveva paura di nulla, faceva il gradasso con i pesci più grandi di lui, giocava con i granchi e gli piaceva avventurarsi negli anfratti delle rocce, sparire sotto la sabbia e poi guizzare in alto, su su, quasi fino a toccare il suo cielo.
Blue invece era molto più riservato. Se ne stava quasi sempre in disparte, gli piaceva nuotare piano

 e da solo, farsi cullare dalla posidonia, amica fidata che lo proteggeva da tanti pericoli. Era un pesciolino pigro e timoroso, non era un tipo che attaccava brighe lui, anzi, si teneva ben lontano dai litigi. 
 
Big e Blue però, stravedevano l’uno per l’altro, si volevano davvero un gran bene.
 
 
II
Una volta avevano una mamma. Si chiamava Ama, se la ricordavano bene, soprattutto Blue che ci aveva passato tanto tempo insieme. Lei gli leggeva le storie che parlavano della terraferma, gli raccontava di paesaggi lontani verdi e dorati, completamente illuminati dalla luce del sole.
Big ogni tanto stava a sentire, era impossibile non farsi rapire dalla voce incantevole di mamma Ama, ma tante volte preferiva girovagare assieme al loro papà. Quella luce splendente, che dentro l’acqua filtrava coi suoi raggi sparsi, lui la voleva cercare, per vederla da vicino.
Suo papà gli aveva insegnato un trucco segreto: prendeva la rincorsa, sospinto dalle correnti, e con uno slancio da maestro dava un colpo di pinna e saltava fuori dall’acqua. 
Era questione di tre, cinque secondi forse, ma erano attimi bellissimi, prima che l’aria di fuori cominciasse a diventare ostile e irrespirabile.
“Papà, perché non possiamo vivere là fuori?”.
Gli chiese Big, un giorno.
“E rinunceresti a tutto questo?”.
Rispose Papà Re volgendo lo sguardo all’immensità sottomarina e scomparendo tra sabbia e coralli.
 
III
Poi le cose erano cambiate.
Gli abitanti della terra, quel luogo che per Big e Blue era incantato e misterioso, si erano convinti sempre più di avere il controllo supremo su ogni cosa: prati verdi e distese d’acqua, senza distinzioni.
Agli umani bastava immergere i piedi sulla riva bianca e fresca e guardare verso l’orizzonte, per essere felici. E se ne fregavano se il tappo di una bottiglia vuota finiva accidentalmente in terra. La fatica di raccoglierlo era troppa per loro: uno sguardo a quel pezzo di plastica stonato sulla sabbia e uno al mare, immenso, che pareva poter raccogliere e far sparire nel nulla qualunque cosa.
“Tanto il mare è grande”, dicevano con noncuranza.
Big li aveva sentiti una volta, in una delle sue scappatelle fuori dall’acqua azzurra.
Certo, mamma Ama non sarebbe stata dello stesso avviso. Era successo così, mentre giocava divertita, una mattina d’estate, il sole, tanto forte che filtrava anche sott’acqua.
Era rimasta intrappolata in un cerchio bianco lattiginoso, di quelli che tengono unite le lattine di coca-cola. Sembrava un gioco passarci attraverso. Ma poi ogni cosa si era spenta, il suo ultimo pensiero pieno di luce per Big e Blue.
Papà Re, accecato dalla rabbia, aveva baciato i due pesciolini.
“Vado a cercare i colpevoli. Prenditi cura di loro” aveva urlato dietro di sé a nonno Mar, ed era andato via, sparendo in un vortice di sabbia e dolore, veloce come un razzo.
 
IV
La vita continuava a scorrere come la corrente d’acqua salata che circondava Big e Blue. Nonno e Nonna Mar li avevano cresciuti nell’amore e nel rispetto. 💙👑 Blue aveva imparato a godersi ogni cosa con serenità e pace, continuava a leggere quelle parole magiche che raccontavano le meraviglie della terra, si immaginava i bambini che correvano a piedi nudi sulla sabbia, non molto distante da loro. 👫 E allora nuotava veloce e libero con il suono della voce di mamma Ama a fargli da eco lontana. 🐋 Big invece, covava ancora un piccolo fuocherello di rabbia dentro di sé per quello che era successo.💔 Soltanto i giochi spericolati che amava fare fin da piccolo, erano in grado di spegnere quel fuoco. 💦💦 Stava ben attento a non inciampare nelle lenze trasparenti gettate nel mare, faceva lo slalom tra i rifiuti che finivano per inquinare il blu cristallo del suo mondo.🏖️ La cosa che lo divertiva di più era sfidare i bambini sul pelo dell’acqua. Le loro risate gioiose facevano ridere anche lui. 😀 Era tutto un gioco, ogni volta che riusciva a scappare dalla presa di quelle piccole mani, esultava felice, turbinando nell’acqua. Qualche volta erano i bambini a cercare loro, immergendosi sott’acqua con le pinne e delle strane maschere che schiacciavano il naso e dilatavano le pupille. 🏊‍ “Ci vogliono somigliare”. Rideva il nonno. “Ma non ci riusciranno mai”. Aggiungeva nonna Mar fiera, ma con gli occhi velati di tristezza.
V
Un giorno, Big si sentiva particolarmente solo e dopo tanto insistere, era riuscito a convincere Blue ad allontanarsi insieme a lui. “Vieni Blue, dai. Gioca con me per una volta”. “È pericoloso, sto così bene qui, al sicuro”. “Ma ci sono io, vedrai sarà divertente. Potrai conoscere da vicino gli esseri umani, di cui ti piace tanto leggere”. L’entusiasmo irrefrenabile di Big era davvero contagioso. Blue decise allora di accantonare per qualche istante i suoi timori e seguire suo fratello. Era da tempo che non nuotavano insieme, entrambi si sentivano felici e spensierati. Giocarono a nascondino, fecero gare di velocità tra coralli e stelle marine. Big si spingeva sempre più in alto, guardandosi dietro di tanto in tanto per esser sicuro che Blue non cambiasse idea e tornasse dai nonni. Ma Blue era con lui, e lo seguiva sorridente e fiducioso. Arrivarono tanto vicini alle rocce sulla riva di una spiaggia, la preferita di Big. Gli schiamazzi dei bambini risuonavano come musica dentro l’acqua. Big insegnò a Blue il colpo di coda per uscire allo scoperto e così Blue vide per la prima volta gli essere umani. Rimase sbalordito dai loro movimenti, dai colori, da quanto tutto sembrava brillare alla luce del sole. Saltava in continuazione, si tuffava e poi di nuovo su, in alto. Aveva perfino più resistenza di Big. A un certo punto però, qualcosa andò storto. Blue ci stava mettendo veramente troppo a tornare giù. Big risalì in superficie. Non voleva credere ai suoi occhi ma quel che vide lo fece sprofondare negli abissi della disperazione. I bambini non si servivano più soltanto delle mani per giocare, avevano secchielli e strani aggeggi lunghi come bastoni che finivano con un retino. Lo avevano preso, avevano catturato Blue!
VI
Blue non capiva cosa stesse succedendo. Un attimo prima saltellava felice beandosi di tutto quello che vedeva, così grato a suo fratello Big per avergli fatto scoprire gli angoli di mondo che non conosceva, se non tramite le immagini dei libri che prendevano vita nella sua testa.
Il momento più bello però, era tornare giù, dentro il suo mare, a respirare la vita come gliel’avevano donata.
Ma ora, dov’era l’acqua? Era sicuro di averne addosso ancora un po’, sentiva il sale. Ma sentiva anche il sole, sempre più forte.
Qualcosa stava andando per il verso sbagliato. Non riusciva più a nuotare, ci provava ma i suoi movimenti erano scoordinati. Si sentiva schiacciato, in trappola, impigliato in una strana rete, sballottato da una parte all’altra in quell’aria che non era la sua.
Vedeva immagini sempre più sfocate, non riusciva nemmeno più a pensare.
Diventò quasi buio e poi, improvvisamente, una boccata d’acqua arrivò fresca e decisa come il primo respiro fatto alla nascita.
Nonostante fosse ancora intontito, fece uno scatto velocissimo in avanti, un po’ per la felicità e un po’ per la paura. Voleva scappare il più lontano possibile.
Ma ancora una volta qualcosa andò storto. Se nuotava dritto, sbatteva su una superficie dura e cieca. Se cambiava direzione, succedeva lo stesso. Girando in tondo si era reso conto che lo spazio in cui si trovava era molto piccolo, un cerchio chiuso, con pochissima acqua e senza nessun altro intorno o vicino a lui.
Era solo, in trappola.
Ma almeno respirava.
Guardò in su.
Un sorrisetto diabolico e due occhioni neri lo fissavano con attenzione. Era sicuro di aver incrociato lo sguardo con quel gigante che lo osservava.
Capì che era soltanto un bambino quando una figura grande il doppio si avvicinò al secchiello.
Era una donna bellissima. Doveva essere una mamma, perché il suono della voce delle mamme è inconfondibile.
Blue li osservava affascinato. Erano così vicini, sorridevano.
Gli piacevano, come potevano essere tanto cattivi?
Perché l’avevano tirato fuori dalla sua casa, lui che era piccolo e voleva soltanto giocare?
“Hey, tu. Bambino. Mi senti?”
Evidentemente il bambino non si accorgeva di nulla.
“Guardate cosa ho preso!”.
Urlava.
“Sono stato il più bravo, il più veloce. Ho vinto!”
La sua risata stridula rimbombava nello spazio stretto dove stava Blue. L’acqua stava cominciando a scaldarsi, sempre più in fretta. Era fastidiosa e presto sarebbe diventata insopportabile.
“Cosa avresti vinto?”.
Una voce diversa, calma e asciutta aveva zittito tutte le altre.
Apparteneva a un altro bambino che guardò dentro il secchiello.
“Ti senti tanto forte, il migliore, solo perché hai preso questo pesciolino? È così piccolo, cosa pensi di fare?”
“Voglio guardarlo da vicino”.
“E come ti sentiresti tu, chiuso in un secchio stretto stretto, con poca aria e dei giganti che ti guardano dall’alto?”
“Voglio portarlo nell’acquario che ho a casa”.
“Nell’acquario che hai a casa sopravvivono soltanto pesci d’acqua dolce. Questo ha sempre vissuto qua, nell’acqua salata, lo faresti soltanto morire. Perché non lo ributtiamo in mare?”
Tutti i bambini si guardarono, consultandosi in silenzio sulla decisione da prendere.
“Va bene. Però prima diamogli un nome.”
“Lo chiamiamo con le iniziali dei nostri nomi!”
“Andrea, Roberto, Giulia, Ornella”.
“ARGO!!!” Dissero in coro i quattro bambini.
E così, Andrea prese il secchiello e tutti insieme si avvicinarono alla riva.
“Ciao Argo, anche se sei diventato nostro amico ti liberiamo. È giusto che torni nella tua casa”.
In men che non si dica Blue attraversò una cascata d’acqua, precipitando nell’immensità del mare.
Era sbalordito, estasiato e grato dell’avventura che aveva appena vissuto. La più grande e avvincente, più bella perfino di quelle che leggeva con mamma Ama, o di quelle che gli raccontava Big. Doveva ringraziare lui prima di tutto,  andare subito a cercarlo. Ma prima fece un ultimo salto fuori dall’acqua per salutare i bambini. Erano ancora lì, a guardarlo andar via.
“Grazie amici”.
Quando lo trovò, Big era su tutte le furie. Arrabbiato, creava
mulinelli di sabbia muovendosi da una parte all’altra.
“Big!”
Si arrestò di botto.
“Blue! Sei tu?”
“Sono io, fratellino. Mi hanno liberato”.
La felicità di Big non si poteva esprimere a parole.
Blue gli raccontò ogni cosa: il divertimento, la paura, la curiosità e infine il sollievo.
“Sai Big, avevi ragione. È bello esplorare, giocare… e qualche volta anche rischiare. Non tutti gli esseri umani sono cattivi. I bambini sono come noi, sono intelligenti. Insieme, hanno capito quanto stessi soffrendo, lontano da casa e da te. Hanno fatto la scelta giusta. Sono stati buoni”.
“Questa sì che è una bella sorpresa”.
Rispose Big. “Ma anche io ne ho una per te, vieni!”
Si avviarono verso casa e quello che gli occhi di Blue videro lo resero il pesciolino più felice di tutta l’acqua e di tutto il mondo.
Nonno e nonna Mar sorridevano e accanto a loro c’era papà Re. Era tornato dal suo lungo viaggio e stringeva a sé un pesciolino che si era perso. Si abbracciarono, piangendo lacrime salate di gioia.
Erano di nuovo tutti insieme, in famiglia, con mamma Ama nel cuore e un nuovo amico con cui
crescere e giocare.
“Non si ricorda il suo nome”. Disse papà Re. “Come possiamo chiamarlo?”
Blue sorrise, guardò il cielo attraverso l’acqua e rispose:
ARGO”.
– FINE –
Di Erika Carta
Illustrazioni di Sara Camboni

Sangue e morte nelle guerre antiche

di Paolo Novelli.

Romani e Greci, ma anche barbari, battaglie, evoluzione delle tattiche militari e massacri inauditi. Questa breve digressione si prefigge l’obiettivo di fare chiarezza sul concetto di scontro armato in relazione alla vita umana nell’età antica, rispondendo a semplici domande quali:

Come potevano sacrificarsi delle vite in modo tanto brutale?

Cosa spingeva gli uomini verso una battaglia?

Quali forze – interiori e non – li sostenevano davanti allo spettro terribile della morte?

Per riuscire in ciò che facevano, assumevano sostanze capaci di alterare le normali facoltà intellettive?

Iniziamo proprio col rispondere a quest’ultima domanda: sostanzialmente no. Nell’antica Europa mediterranea il vino era l’unica sostanza in grado di alterare le facoltà mentali di una persona. Tra i Romani se ne faceva largo uso anche in ambito militare, ma normalmente non veniva fornito prima di una battaglia.

Bisogna invece sfatare un mito circa la violenza esplicita. Noi moderni, infatti, siamo culturalmente portati a pensare che le battaglie fossero un bagno di sangue e che al termine, il luogo dello scontro fosse disseminato di cadaveri più o meno macellati nei modi più truculenti. In qualche caso era effettivamente così. Ciò che tuttavia fa la differenza sono invece gli innumerevoli casi in cui non era questa la conclusione naturale di uno scontro armato.

Prima di entrare nel ginepraio della guerra guerreggiata bisogna tuttavia tenere conto che la morte e il sangue, così come la sofferenza fisica ed emotiva, erano per gli antichi una costante della vita. La normalità, insomma. E la normalità si accetta senza troppi pensieri. Da bambini come da adulti le persone convivevano con la morte, che poteva presentarsi loro sotto molteplici forme. Tutto veniva assorbito senza alcun filtro, a eccezione di quello religioso. Ora, senza voler entrare nello specifico della funzione religiosa, quest’ultima non aveva il solo scopo di mediare tra l’uomo e l’Aldilà, ma anche l’obbligo di espletare una funzione regolatrice della vita quotidiana, fornendo più o meno scientemente spiegazioni sui grandi temi dell’esistenza.

La vita nell’antichità non aveva lo stesso valore universale che oggi le si attribuisce. Pari dignità trovava solo all’interno di un dato contesto etnico e settario. Ovvero: un romano aveva rispetto per la vita di un altro essere umano, purché fosse romano e libero. La vita degli schiavi e degli stranieri non meritava altrettanta considerazione. Non comprendere questa realtà, contribuisce a rendere indecifrabili alcuni aspetti antropologici delle società arcaiche, finendo col farci dimenticare le analogie che contribuiscono invece ad avvicinarle molto a noi.

Dove il distacco tra le nostre società appare abissale è nell’idea e nella realizzazione del concetto di guerra, di battaglia, e nell’importanza ricoperta dal sangue e dalla morte come mezzi utili a ribadire una superiorità militare, tecnologica e culturale di un popolo su un altro. Entrando nello specifico possiamo affermare che le battaglie erano sì molto cruente, ma anche brevi. Normalmente era perciò sufficiente ribadire la propria superiorità con una schermaglia. È questo il caso delle numerose battaglie che si sono succedute tra le poleis greche, dove in gioco non c’era la sopravvivenza di una civiltà ma solo l’egemonia su una regione. Diversa (e se vogliamo sicuramente intrisa di maggior epicità) è invece la lotta che queste stesse poleis hanno condotto contro l’impero persiano. Indimenticabili sono le battaglie di Maratona, delle Termopili, di Salamina, di Capo Artemisio o di Platea. È dunque proprio in questi ultimi casi, e cioè quando la posta in gioco era la sopravvivenza stessa del gruppo etnico, che l’idea di scontro armato si snaturava e assumeva le connotazioni di una vera e propria “guerra totale”, di annientamento o di difesa estrema.

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Opliti delle poleis greche

Nella tarda antichità, tra i popoli che abitavano le rive del Mediterraneo si erano venute a formare sostanzialmente due scuole militari: quella ellenistica (più antica e portata ai massimi splendori da Alessandro Magno) e quella romana. Quest’ultima, al tempo del grande re macedone era ancora acerba, ma covava già i concetti basilari dello sviluppo tattico che avrebbero consentito ai Romani di elevare la propria supremazia su un territorio vastissimo e su popolazioni molto eterogenee.

Ma facciamo un passo indietro, e analizziamo come si svolgeva una battaglia convenzionale a quei tempi, cioè quando non era in gioco la sopravvivenza di uno dei due gruppi, e quando la guerra serviva per stabilire semplicemente quale fazione fosse  la più forte.

Per prima cosa bisogna dire che le campagne militari si svolgevano esclusivamente nel periodo estivo, poiché molto spesso i soldati erano anche i contadini e dovevano occuparsi della semina o del raccolto. Quando perciò si arrivava al dunque, nel peggiore dei casi la battaglia decisiva iniziava la mattina e finiva alla sera. I morti si avevano più numerosi quando uno dei due schieramenti rompeva le linee e scappava volgendo la schiena al nemico. Era quello il momento in cui aveva luogo il vero e proprio stillicidio di uccisioni. Prima, quando si era faccia a faccia o scudo a scudo, era più che altro uno spingersi l’uno con l’altro nel tentativo di colpire le parti scoperte del nemico, ovvero il collo, il braccio che reggeva l’arma di offesa, le gambe o i piedi.

Questo modo di fare la guerra era alla base della società greca e romana. Ma se per i greco/macedoni la falange – ossia un assembramento di uomini armati di aste lunghe e piccoli scudi che aveva la funzione di avanzare in linea retta (come un istrice) e travolgere tutto ciò che gli stava davanti – rappresentava la quintessenza della perfezione tattica (non a torto, dato che aveva consentito loro di portare i confini del regno di Alessandro dalla piccola Macedonia alle sponde dell’Indo), per i Romani era vero il contrario. Questi ultimi, infatti, avevano adottato gli schemi di combattimento greci solo in principio, salvo poi rendersi conto della loro scarsa duttilità. Era nata così l’idea della legione manipolare: uno schieramento che raggruppava i reparti combattenti in piccoli e mobili “manipoli”, i quali potevano muoversi con maggior libertà sul campo di battaglia offrendo così ai generali una gamma diversificata di opzioni tattiche.

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Falange macedone

La consacrazione definitiva della superiorità della legione sulla falange ellenistica si ebbe durante la conquista romana del regno di Macedonia e, più in generale, della Grecia. Certo, occorre dire che Roma in quel periodo viveva anni di fulgido splendore, mentre i regni ellenistici attraversavano una decadenza che viveva perlopiù di luce riflessa del passato. Ma la guerra non ammette malinconie e nelle numerose battaglie in cui le legioni hanno affrontato la falange, quest’ultima ha evidenziato tutta la sua arretratezza, venendo ripetutamente e definitivamente sconfitta sul campo.

Dunque era Roma a essere divenuta il faro del mondo militare antico. Eppure, anche la raffinata macchina da guerra legionaria sarebbe stata messa in difficoltà: non da assembramenti tattici di miglior fattura, ma dalle qualità personali dei suoi nuovi nemici.

Celti (cioè coloro che i Romani avrebbero chiamato Galli) e Germani avevano infatti un modo di approcciarsi alla battaglia radicalmente differente. Essi non vivevano l’esercito come una singola macchina da guerra, in cui l’individuo faceva parte di un meccanismo più grande, ma come una sfida personale. Era perciò un bravo guerriero colui che si dimostrava impavido, che sconfiggeva in singolar tenzone il proprio avversario e che puntava tutto sulle proprie qualità personali, fisiche e caratteriali. Se per i Galli, che al tempo della conquista romana stavano già vivendo il tramonto della loro epoca, esisteva una grande tradizione equestre, per i Germani il discorso era molto differente. Essi combattevano principalmente con truppe di fanteria armate alla leggera e disposte su un’unica linea, compatta e assemblata seguendo precise varianti derivate dalla composizione famigliare delle tribù. Per raggiungere la vittoria puntavano tutto sulla furia e la carica frontale, mentre la ritirata era contemplata solo per potersi riorganizzare in vista di un nuovo assalto.

Questi popoli, radicalmente differenti dai Romani, avevano sempre suscitato in loro un terrore atavico, che i capitolini ben riassumevano con l’espressione “metus gallicus”, il quale risaliva al tempo in cui i Galli avevano saccheggiato Roma e messo a repentaglio l’esistenza stessa della città e della sua popolazione.

I primi contatti tra i Germani (coloro che più di ogni altra popolazione rappresentavo il modello del barbaro) e i Romani, invece, si ebbero al tempo delle grandi migrazioni dei Teutoni e dei Cimbri, che misero a soqquadro l’Europa intera. Durante quel periodo, le legioni si trovarono nella scomoda situazione di dover prendere atto che la tattica fine a se stessa non poteva arrestare la paura che i guerrieri selvaggi suscitavano negli uomini mediterranei. Ci vollero ben sei sconfitte sul campo prima che Roma producesse i necessari anticorpi. L’uomo che guidò tale riscossa fu Gaio Mario, il quale trasformò l’antica legione manipolare nella legione centuriata: impose una disciplina ferrea, un armamento standard e abolì la leva obbligatoria in favore di quella volontaria, trasformando la macchina da guerra romana nel collettivo combattente organizzato che avrebbe retto le sorti della Repubblica prima, e dell’Impero poi.

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Legione romana – lancio del giavellotto (pilum)

Non che i Romani e Mario fossero arrivati a questa conclusione con logica lineare. Erano infatti state le nuove necessità belliche ad aver prodotto le riforme dell’esercito, i cui risultati non tardarono a manifestarsi nelle due battaglie d’annientamento che Mario stesso portò contro questi popoli invasori ed etnicamente differenti dai latini. Si tratta, delle celebri battaglie di Aquae Sextiae e dei Campi Raudii.

Ecco dunque che il tema del sangue e della morte torna prepotentemente in auge. Le stragi offerte agli dei che i Romani compirono in quelle occasioni non furono certamente le prime della loro storia (né tanto meno le ultime), ma furono il giro di boa. Due carneficine di proporzioni bibliche a cui seguì, di fatto, la consacrazione della loro egemonia tattica per i successivi quattro secoli.

Non solo. Dalla riforma mariana dell’esercito ebbe a svilupparsi la tendenza – ancora oggi molto attuale – di fare la guerra per tornaconto economico. Non che prima di allora non fossero mai state fatte guerre in tal senso, ma certo i Romani portarono il concetto di espansionismo economico, di apertura di nuovi mercati e di sfruttamento delle risorse, verso confini mai immaginati prima, in cui il sangue e l’uso strumentale della morte non tardarono a far sentire la loro importanza.

Erano, questi ultimi, fattori talmente comuni da essere utilizzati persino per sollazzare le plebi. Celebri sono gli spettacoli tra gladiatori o le esecuzioni pubbliche trasformate in pubblici spettacoli. A tal punto il trionfo della morte fu celebrato che, quando oggi i turisti vanno a visitare un luogo simbolico come il Colosseo, in pochi hanno la percezione di calpestare letteralmente uno dei posti con il più alto tasso di uccisioni al mondo, se calcolato in relazione allo spazio occupato!

Per concludere, il soldato romano come molti altri soldati prima e dopo di lui, andava in battaglia con la fiducia nel proprio comandante (generale o console che fosse), ma anche con delle forti motivazioni personali che potevano essere di carattere aggressivo/difensivo o, come peraltro sarà sempre più, di carattere economico – per accaparrarsi il bottino di guerra.

In sostanza, la paura e la cupidigia erano, e sono forse ancora oggi, i due pilastri che tengono in piedi i destini del mondo.

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Gaio Mario in trionfo

 

Paolo Novelli è nato a Mantova nel 1986. Laurea in Scienze della Comunicazione Scritta e Ipertestuale ed esperienza da giornalista, studia da sempre la storia, con particolare predilezione per il mondo antico.