Breve storia del romanzo poliziesco

Breve storia del romanzo poliziesco

Le brevi storie di cui Graphe.it ci fa dono sono un po’ come le giornate che sembrano primavera a febbraio.
Inaspettate e luminose, vorresti non finissero tanto presto. 
Ma come insegna la frase che dà voce alla collana: parva scintilla magnum saepe excitat incendium. 
Una piccola scintilla.
Breve storia del romanzo poliziesco. Leonardo Sciascia.
Impreziosito da un’introduzione di Eleonora Carta.
C’è un filo che li lega, perché conosco Eleonora e sono certa che come Sciascia, ha avuto “un’adolescenza e una prima giovinezza trascorse in compagnia della vorace lettura” di gialli.
Che sempre continua, affiancando il suo lavoro di autrice.
In veste analitica, in questo breve saggio, ci introduce alla storia del romanzo poliziesco, segnalando il punto di confine su cui Sciascia opera magistralmente.
Non più il giallo declassato a mero passatempo, a “meditazione senza distacco” ma “uno strumento d’elezione per raccontare la società e i suoi mali.”
Cuore delle riflessioni di Sciascia, che si aprono qui con un ritratto di Giacomo Putzu, l’assunzione di significati del poliziesco, nel tempo e nello spazio. 
Analisi, denuncia, persino frustrazione. 
Pensiero critico.
Tutt’altro che lettura passiva. 
Il ruolo dello scrittore che inizia a cercare attivamente la verità, identificandosi con il personaggio tanto da riconoscere eguali il metodo di indagine e il metodo di scrittura, come per esempio in Maigret e Simenon.
Da Poe a Christie, da Chandler a Spillane, l’evoluzione delle figure di investigatore e aiutante, di poliziotto e delinquente. Personaggi che diventano “tipi”.
Personalmente, mi ha colpito tantissimo il paragone con le maschere delle commedie d’arte.
Ma se dovessi riportare ogni cosa che ha fatto breccia in me, vi racconterei il libro con parole tutte mie e non ne varrebbe la pena. 
Perché ci hanno pensato Leonardo Sciascia, Eleonora Carta, Giacomo Putzu con la sua arte e la la Graphe.it a liberare questo concentrato di bellezza e conoscenza.
Di meraviglia.

© Erika Carta

Un altro Natale

Un altro Natale


“Un altro Natale” è il titolo del libro edito da graphe.it, in questo 2021 per la collana di narrativa “Natale ieri e oggi”.

Un titolo dove la parola “altro” ha due connotazioni, come ha raccontato Roberto Russo della casa editrice.

 “Un altro Natale, che stress!” 

Oppure “Un altro Natale, e meno male!”

Personalmente propendo verso la seconda. A dicembre, come a maggio, a febbraio, a settembre.

Natale è uno stato d’essere.

Due storie, una vecchia e una nuova, che raccontano la fame.

Perché, sarà il primo vero freddo dell’anno, saranno i profumi intensi, sarà che vorremmo essere scaldati dalle luci colorate e dalle tovaglie rosse… ma a Natale la fame aumenta. 

Sia essa del cibo, come quella narrata da Ferdinando Paolieri nel racconto “Il Natale di Granfialunga” , o quella d’affetto raccontata da Susanna Trossero in “Tutti gli Alfredo del mondo”.

Avventura, rischio e riscatto per i Granfialunga sullo sfondo della campagna toscana negli anni 20. 

Maestria, giochi di parole e tenerezza per il protagonista della Trossero.

Filo conduttore: la speranza, quella che è difficile mantenere tutto l’anno ma che la notte di Natale torna viva, forte e chiara a farsi sentire.

E trovarla appagata dentro un libro fa star bene anche fuori.  

©Erika Carta

Uccidiamo lo zio

Uccidiamo lo zio

“Una certa alchimia propria all’isola, li aveva trasformati in una coppia di bambini reali, di bambini magici”. 

Trovo sempre incredibili e, forse, i più ben riusciti, quei libri che partono sotto classificazione di un genere e che poi dalla prima all’ultima pagina prendono una strada diversa e contorta, senza che il lettore se ne renda davvero conto. 

È questa l’impressione che mi ha suscitato “Uccidiamo lo zio” di Rohan O’Grady.

Il titolo la dice lunga. 

Sia ben chiaro: ogni riga è impregnata di “black humor”, sembra un “giallo” alla vecchia maniera. Ma non soltanto. 

Tutto il romanzo, nel complesso, è come una vacanza estiva, pausa dall’inverno, una bolla dove si intessono rapporti sempre più fitti al ritmo tra il calar del sole e il sorgere d’ogni nuova alba.

Dove parlare di bugie, violenza psichica, ricatti morali e morte non è poi così tragico.

Strano vero?

Ma questo è l’effetto. 

Perché i protagonisti sono due marmocchi, Barnaby Gaunt e Christie Mcnab che per motivi diversi giungono su un’isola tranquilla, pacata e ordinata, dove non succede mai niente, come in tutte le isole, finché non arriva qualcuno a smuovere le acque, a togliere le  maschere, a mescolare le carte nel mazzo.

Eppure è la loro naturalezza bambina a rendere tutto così scorrevole e accettabile. Perfino quando si tratta di commettere un omicidio premeditato!

Il nemico? Uno zio cattivo che per primo e con una ferocia subdola e inaudita mira a eliminare l’ultimo ostacolo che lo divide da una cospicua eredità. 

La penna di O’Grady sviscera però nella quotidianità del racconto, tantissime sfaccettature della mente umana(e non solo), con particolare attenzione ai rapporti tra adulti e bambini, troppo spesso flebili voci mal interpretate, non udite o meglio… non ascoltate. 

Parrebbe un ritmo lento, sonnacchioso, invece ci si ritrova travolti da un’inspiegabile allegria e nello stesso tempo dalla difficoltà di interrompere la lettura, come spiati di continuo da un paio d’occhi sinistri. 

Divertente e magico, “Uccidiamo lo zio” è un romanzo del 1963. Rohan O’Grady è in realtà June Margaret O’Grady Skinner, scrittrice sottovalutata che nel 2010 prende nuova vita con la ristampa del romanzo da parte della casa editrice Bloomsbury e che a detta di Donna Tartt, era già allora “molto in anticipo sui tempi”.

Pubblicato per la prima volta in Italia, grazie alla WOM, (acronimo di Word Of Mouth) giovanissima casa editrice che incappa accuratamente su gioielli letterari e che, a parer mio, rende giustizia alla bellezza. Sia essa delle immagini, delle parole scritte o raccontate a voce. Dell’interazione.

E che a una velocità disarmante ha già piantato radici nel cuore di librai, lettori e sostenitori della cultura. Quelli pazzi.

Quelli che…

“stanno spesso in un cantuccio, all’ombra della propria lampada, assorti nel silenzio e in ascolto della cantilena della propria lettura, mentre fuori, la classe dei mercanti e dei guerrieri, degli arrivisti e dei capibanda, degli strilloni e degli arruffapopoli, fabbricatori di best-seller, si scannano e si divorano gli uni con gli altri, mentre l’ombra del tempo è sospesa da un punto e a capo”.

Da https://www.womedizioni.it/la-casa-editrice/

Erika Carta

Maicolgècson, una storia di scoperta e crescita

Maicolgècson, una storia di scoperta e crescita

di Maria Francesca Carboni

Ci sono più momenti nella vita in cui potremmo essere chiunque. Uno di questi è la prima infanzia. E subito dopo l’adolescenza. Anche se le ricerche scientifiche dicono che questa capacità di cambiare per diventare chi vorremmo essere, in realtà, duri tutta la vita e dipenda dalla plasticità del nostro cervello e dalla ricchezza delle esperienze vissute. 

Paola Soriga, con il suo romanzo Maicolgècson (Mondadori), sembra voler parlare di questa speranza: il costante mutamento che, infine, approda alla scoperta di sé. Il cambiamento in questo caso riguarda le imprese di una bambina che diventa ragazza, adolescente. E durante la crescita scopre la sua strada, fra le infinite possibili. Più di un destino, la storia di Remigia, in arte Maicolgècson, è la costruzione corale di un cammino condiviso. 

I suoi maestri sono star della musica. Prima di tutto Michael Jackson, a cui deve il nome, per via di quei capelli ricci, fitti fitti, come lana d’acciaio. E Maicolgècson è “su nomingiu”, il soprannome, che zio Stefano le dà appena nata. 

Poi ad ispirare Remigia durante tutto il racconto sono i suoi parenti, le nonne, gli zii e le zie, i cugini. Ma soprattutto i suoi “didini”, il padrino e la madrina del battesimo, figure eclettiche, fuori dagli schemi, che di quel potenziale vedono tutti i possibili risvolti, come dei veggenti. E per questo lo coltivano, lo stuzzicano con affetto. 

Mike, così si farà chiamare Remigia dai suoi amici, ad un certo punto, la strada del suo futuro la intravede. Vuole cantare. E poi vuole ballare. Lo scopre crescendo. E anzi forse vorrebbe tutto: ballare e cantare come se fossero un’unica cosa.

Paola Soriga racconta la storia di una famiglia uguale a tante, ma diversa nel modo singolare di vivere la quotidianità. Le storie del vicinato allargato si intrecciano con quelle di Remigia bambina e poi adolescente. Ci sono i parenti stretti, i parenti che abitano in “continente” e tornano solo per le vacanze estive. Poi i vicini di casa, gli amici dell’estate. I ragazzi grandi che vanno e vengono, fidanzati e fidanzate dei suoi padrini di battesimo. 

La finestra da cui Remigia ammira il mondo contempla orizzonti vicini e lontani. I più noti, quelli della sua famiglia, sono i loggiati delle case campidanesi in cui studia canto o gioca con i cugini e cugine a casa dei nonni. I cortili e giardini della campagna cinta da filari di fichi d’india e frutteti. Il roseto che il padre di Remigia coltiva per la madre della ragazza. I palazzi bianchi di Cagliari, il mare piatto e limpido come se qualcuno lo avesse pulito con il Vetril. Il dialetto sardo campidanese che segna i confini dell’esperienza familiare di Remigia e diventa pratica, consuetudine, azione, un modo di essere e agire difficile da restituire in altre lingue.

Invece gli orizzonti lontani sono tracciati dai suoi idoli, dai cantanti a cui si ispira: Eros Ramazzotti, Laura Pausini, i Queen, I Nirvana. Sono i mondi musicali conosciuti grazie a zio Stefano (e non solo). Ma sono inoltre le esperienze di vita che varcano la pianura del Campidano e arrivano addirittura a Londra, dove abita la didina Gina.

Remigia, quindi, cresce e scopre l’amicizia, l’amore, le delusioni. E più di tutto sé stessa. Rivendica con tenacia quello che le appartiene: la sua vita, così come lei è riuscita ad immaginarla fino ad allora. Tanto che il desiderio infine prende forma. Perché Remi – così si farà chiamare arrivata alle superiori – continuerà a danzare e cantare, orgogliosa dei suoi talenti. 

Maicolgècson di Paola Soriga racconta una storia particolare e universale allo stesso tempo. Questa storia potrebbe essere ambientata ad Uta, Assemini, Siliqua perché “i paesi si somigliano, forse in tutto il mondo e certo qui da noi”, come dice l’autrice. Quindi se le vicende raccontate sono certo particolari, ciò che di universale rimane è l’intrecciarsi dei sentimenti intensi, a volte contrastanti, estremamente umani, che Remigia restituisce attraverso i suoi occhi, facendosi portatrice della sua storia e di quella degli altri.

Un cuore logorroico
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Un cuore logorroico


Dove stanno le parole? 

Ne è piena la mente. 

Ho l’immagine di stringhe di lettere che circolano e si incrociano di continuo, all’altezza delle tempie.

Nella mano, che guida la penna a portarle via, per depositarle su un foglio. 

Ma posso dire, con certezza quasi assoluta, che a farle nascere ci pensi il cuore. 

Tanto più se è un “Cuore logorroico” come quello di Stefania Congiu, che (finalmente) ci regala la sua seconda raccolta di poesie.

Sono altrettanto sicura che nel momento in cui lo leggerete, ci sentirete anche il vostro di cuore, dentro. In questo spazio condiviso e paradossalmente silenzioso come soltanto un libro riesce a essere. 

Molto spesso si suole fare confronti tra i libri di uno scrittore. E così, immancabilmente, penso a “L’elefante tra gli ombrellini” dove Stefania scattava parole, scrivendo fotografie così nitide che sembrava si animassero davanti agli occhi.

Ora abbiamo questo cuore, che ha come cambiato prospettiva.  

Legato profondamente alla natura della nostra Terra, alla lentezza, a chi… per forza di cose ha dovuto osservare molto più dentro, che fuori. 

Così, è parso a me. 

Ma si sa, le parole, soprattutto quelle in versi, hanno l’enorme potere di uniformare o ramificare i pensieri, in un terreno da spartire tra chi scrive e chi legge. 

Io, sono grata a Stefania per aver trovato il coraggio, una seconda volta, di donare a noi le parole del suo cuore logorroico. 

Spero tanto lo sia anche lei, per essere riuscita a lasciarle andare.

Di chi scrive

“Si sentono arrivare 

come onde improvvise, 

non hanno barriera.

Si prova a scansarle

ad allontanarsi 

a non ascoltare.

Delle volte sono leggere, 

altre pesanti.

Non si lasceranno mettere a tacere, 

devono avere parole.

Serve uno spazio vuoto, 

spesso servono silenzi 

per i turbamenti di chi scrive 

schiavo di emozioni e impressioni 

che anche solo un altro 

a leggere possa riconoscere”.

Un cuore logorroico

Stefania Congiu

Erika Carta