Andrà tutto bene

Andrà tutto bene

Se io avessi le parole, le potessi immaginare.

Fosse facile spiegare, si riuscissero a suonare.

Se potessi raccontare, se sapessi come fare, se sapessi cosa dire allora ti scriverei…

Una canzone d’amore. 

Ecco, perché è questo. Tutto ciò che dirò e che mi viene da quello che ho visto, sentito e vissuto è riconducibile a questo: una immensa canzone d’amore.

Gli 883 sono questo, una canzone d’amore cominciata decenni addietro, destinata a non finire mai.

Naturalmente ho guardato la miniserie tv che con tutta probabilità gridava al successo ancora prima di arrivare sugli schermi.

Merito della storia leggendaria di due ragazzi, Massimo Pezzali e Mauro Repetto, quelli veri, che per varie circostanze volute dal destino, si incontrano in una quinta liceo alla periferia di Pavia.

Due ragazzi che si sono appunto trovati per caso, riconosciuti a specchio a un livello inconscio di complementarietà, che seppure in misura differente si sono spronati l’un l’altro a buttarsi, rischiare, sbagliare, a seguire i sogni, a sacrificarne altri, a non mollare, a vivere e fare la storia, un pezzo di storia della musica italiana. 

Perché l’hanno fatta e non sento repliche.

Merito di ideatori, sceneggiatori, registi e attori giovani e bravissimi che hanno reso in arte del racconto questa storia. 

Con tutti i dettagli visivi, sonori ed emozionali annessi. 

I motorini, la sala giochi, i bar, le macchine dai colori discutibili. Il telefono di casa, la SIP, gli adesivi nelle ante dell’armadio, le cassette di Marco Masini, il Cantagiro e Alessandro Canino. Radio Dj, Claudio Cecchetto, Fiorello, l’Acquafan di Riccione, i telegatti, Lorenzo Jovanotti.

Di piangere me lo sarei aspettata, conoscendomi e conoscendo il tema (magari non per tutte le otto puntate, ma comunque… sì). Di ridere, forse non così tanto. Nemmeno di provare tutte quelle emozioni e reazioni a catena da portarmi ancora una volta qui, (qui seduta in una stanza) dentro una nostalgia così atavica che non importa più se faccia bene o male, rimane sempre e solo da vivere. In tutta la sua intensità.

Mia sorella scrive: “Gli 883 sono i viaggi in macchina, alle elementari, cantando a squarciagola con mia sorella. Lato A e Lato B a memoria. Cantiamo? Sì.”

Potrei finirla così, perché lei ha una squisita arte del riassunto. Ma di contro, io devo aggiungere, sempre. 

Gli 883 che fanno cantare “Hanno ucciso l’uomo ragno” a un bambino che ha tre anni adesso, oggi, sono il legame forte che ha unito due generazioni in particolare: la nostra e quella dei nostri genitori. 

Ecco perché è così intenso ogni ricordo che ha come sottofondo le note de Gli anniLa dura legge del gol e Come mai.

Gli 883 sono quel movimento che ti spinge a uscire nel 2024 in una notte d’estate per sentire quelle canzoni riprodotte da una cover band e cantare, cantarle tutte.

Gli 883 sono i pomeriggi d’estate riunite “al fresco” in cameretta di un’amica prima di poter uscire fuori a giocare per via della “mamma del sole”, a registrarci senza nemmeno la musica sotto, REC: “Tutti mi dicevano vedrai…” e scoppiare a ridere perché è venuto fuori un tono estremamente basso, quasi rauco, cercando di imitare quello di Max.

Gli 883 sono quella stessa estate in cui il quartiere era come una grande casa con tutte le finestre aperte e potevi sentire la stessa musica dalla stanza di un’altra persona e allora prendere coraggio e bussare alla porta del vicino per chiedere in coro: “Ciao ce la presti la cassetta degli 883?”

Gli 883 sono il mio primo, indimenticabile concerto.

Gli 883 sono stati il rimedio per le cose troppo grandi della vita, per quando la morte risultava un concetto ancora incomprensibile ma non per questo meno tangibile.

Gli 883 sono quella musica che ascoltavi apposta per piangere tutte le lacrime per un grande amore perduto… (grande: sedici anni, perduto: e chi l’ha mai avuto?!)

Gli 883 sono le parole cantate a bassa voce  prima di dormire, con le strofe sbagliate, saltate, invertite.

Gli 883 sono il Festivalbar e Nord Sud Ovest Est, sono quelle serate al karaoke quando dici “Dai metti una canzone che sappiamo tutti” e parte “Stessa storia stesso posto stesso bar”; sono quelle note di introduzione che senza volerlo accendono immediatamente gli occhi e tutto quello che c’è conservato dentro.

Gli 883 sono ancora un calmante valido quando l’ansia di questi tempi ti assale e ti insegue in movimento.

Gli 883 sono Max Pezzali e Mauro Repetto.

Gli 883 sono un concetto. E questo concetto racchiude tre cose sulle quali una come me ci ha fondato, credo, tutta la sua ragion d’essere: famiglia, amicizia, amore. 

In qualunque forma esse siano state vissute, cantando gli 883, si azzerava tutto. 

A rimanere, soltanto le parole che son diventate di tutti, cantate con il sorriso e con gli occhi semichiusi mentre la macchina avanza dritta e la strada corre indietro, incontro, intorno.

Ho scritto su Instagram che sentendo le note di Come mai, mi è venuto da tenermi il cuore con le mani. Perché è tutto lì e io lo voglio toccare, proteggere da ogni cosa e conservare per sempre.

E siccome non so proprio quale frase di quale canzone scegliere per concludere, ho deciso che chiuderò così:

Max, ma io questa come la ballo?

Erika carta

Dimmi di te

Dimmi di te


Ultimamente mi scopro scettica quando inizio a leggere libri di autrici, autori che amo. 

Tanto lo so, che non mi deluderanno, che saranno sempre una garanzia, però ho lo stesso un po’ paura. 

E questa emozione non mi disturba, al contrario. Perché poi quando arrivo all’ultima pagina sono così felice che a essersi sbagliata sia proprio la paura, e non io. 

È la volta di Chiara Gamberale. Che è arrivata in libreria con il nuovo romanzo, “Dimmi di te”, che quando ho condiviso un reel dal suo profilo Instagram qualcuno mi ha chiesto: “Quindi? Cosa ci vuoi dire?” E tra le tante risposte che hanno affollato immediatamente la mia testa ho scelto: “che oggi esce il nuovo libro di Chiara Gamberale”. 

E non l’ho comprato, quel giorno. E neanche pochi giorni dopo, quando ho preferito prenderne un altro, dallo scaffale alla Mondadori. 

Ha dovuto aspettare, la mia autrice preferita, quella per cui sono volata a Roma, con Federica, a vedere “Qualcosa” e a riempirmi gli occhi di lucine davanti a lei. La mia Chiara.

Ma sono io che ho atteso lei e le sue parole che fanno sempre, sempre specchio con il mio vuoto. E dove mai, altrimenti, si specchierebbe il vuoto? 

Ho sollevato il capo dalle mie quisquilie per ascoltare le loro […] E io ho scelto le storie, fin da quando avevo l’età di Bambina. Dunque, mi dispiace: ma mettitela via. […] Scriverò l’ennesimo libro che straborda di quisquilie.”

E meno male. 

Eterna adolescente, o “bambina marcia” come qui si definisce. Se sapesse che la parola quisquilie non può che ricordarmi Anacleto de “La spada nella roccia”, le basterebbe per capire quanto mi specchia questo specchio! 

Qui Chiara parte da un blocco, il peggiore dei peggiori per una scrittrice, presumo.

Anche da questo ostacolo, però, nasce una domanda. C’ha sempre domande, lei. 

Quando si leggono i suoi libri sembra che stia a scrivere soltanto di sé stessa… mai cosa si rivela più sbagliata.

Ho letto i libri che hai scritto e so che partono da un’esperienza personale, ma immagino che non racconti proprio tutti i fatti tuoi e che sei abituata a mescolare le carte.”

Ecco, ci ha azzeccato una delle sue stelle polari: una tra le persone di cui ha raccolto la storia in un quaderno giallo per rispondere a quella domanda: “Sei riuscito a crescere? Mi spieghi come si fa?

Chiara, a proposito della magia riscoperta che tanto nomina in questo libro, mescola le carte. Le sue, quelle delle persone da cui è circondata e che ci racconta… e le nostre. 

Inevitabilmente, che ci piaccia o no.

Io la trovo meravigliosamente complessa, la sua scrittura. O la lettura, che per me, come per lei, è la stessa cosa. 

Mi fa impegnare, mi fa cadere, mi fa dissentire e distaccare. Mi fa riconoscere. 

È cerotto e strappo sulle ferite. 

Così, mentre parla di sé e di noi, ci racconta le storie di Raffaello, Ivan, Renata, Marcolino, Paloma, Stefano (che rende meglio come Terence di Candy Candy).

Storie d’amore, tutte.

Tutte patologie elette a sistema.”

Le sono grata. E sono grata a me per le mie scelte, le mie letture, in ogni senso. 

Eravamo troppo piccoli per comprenderla, ma ci entrava nel sangue. […] dobbiamo pretendere bellezza dal mondo. […] La salvavano le quisquilie.” 

© Erika Carta

Figlia del temporale

Figlia del temporale


Una volta che le hai lette, le storie che racconta Valentina D’Urbano, le puoi chiamare per nome. 

Nadir e Celeste , Andreas e Neve, Beatrice e Alfredo.

Hira. E dici tutto.

Astrit, e tutto è lì. 

Non ero scettica ma intimorita da questo nuovo romanzo.

Avevo un po’ paura di non trovarla, Valentina, tra queste righe.

Altroché.

Sapevo anche però, che avrebbe toccato profondità diverse, solo non immaginavo quanto.

Una copertina “talmente bella da fare male” come ha detto la mia amica.

Un titolo evocativo: “Figlia del temporale.”

Io, che dei temporali ho terrore, ho capito subito che questo ce lo avrei avuto dentro.

E così è stato. 

La tensione costante, il lampo di luce che erroneamente fa chiudere gli occhi un secondo troppo tardi e così, il tuono che arriva si sente amplificato. Gli squarci di cielo e sollievo quando le nuvole si allontanano.

Hira è una bambina che vive in Albania, nella città di Tirana. La casa dove vive crolla su se stessa portandosi via radici e storia.

Ci si finisce immediatamente, dentro i suoi occhi, a scorgere lo smarrimento e il coraggio che l’accompagneranno per il resto della storia.

Viene portata nella casa sui monti a Nord del paese, dagli unici parenti che se ne possono occupare: zio Ben, zia Leda e i loro figli, Danja e Astrit.

Astrit è bambino e silenzio. È ragazzo e gestualità. È uomo ed è voce di montagna. 

È lupo.

Lassù, la vita ha regole tutte sue, immutate e immobili, a cui Hira si abitua con il tempo fino a farle pienamente sue.

Astrit, invece, segue il ritmo del cielo, della terra sotto i suoi piedi leggeri; si muove agile nel buio fitto del bosco, parla il linguaggio della natura. 

Hira e Astrit si comprendono, si cercano, si tengono in uno spazio accessibile a loro soltanto.

Perfino quando Hira prenderà la decisione che cambierà per sempre il corso della sua vita, quando l’unico modo per rifiutare un matrimonio combinato è diventare una burrnesh, una vergine giurata.

Tutte quante, tutte. Dobbiamo sempre rinunciare a qualcosa. Dobbiamo sempre spezzarci in qualche punto. Intere non andiamo bene, intere non ci possono sopportare, non è vero?”

Diventerà Mael, uomo nei modi di fare, di vestire, uomo per la comunità.

E non sarà il solo uomo a dover fare i conti con questa femminilità imprigionata.

Ero solo. Né uomo né donna, entità sperduta e irriconoscibile, creatura libera.”

Anche questa volta Valentina D’Urbano è riuscita a puntare la sua luce su una realtà sconosciuta ai più, cucendoci intorno le vite di di due personaggi che si staccano da lei per attaccarsi a noi, che avidi ne leggiamo.

Un romanzo che emoziona nel profondo e che lascia, alla fine, due parole a fior di labbra.

Hira.

Astrit. 

© Erika Carta

La ragazza che amava Miyazaki

La ragazza che amava Miyazaki

Sono venuta a conoscenza di Hayao Miyazaki lo scorso anno, dentro il mio amato ArgoCircolo Letterario, in prossimità della Fiera del libro di Iglesias. 

Avevo quasi trentotto anni, che mi sembrano già lontanissimi dai trentanove di ora, e soprattutto mi sembrano sempre troppi.

Troppi anagraficamente e anche troppi, pensavo, per scoprire un mondo che inspiegabilmente, proprio io, non avevo preso mai preso in considerazione. 

La miccia che ha acceso questo colpo di fulmine è fatta di tre persone, che sembrano una, o di una che si moltiplica per tre (dev’esserci uno strano sortilegio in atto): Raffaella Fenoglio, Silvia Casini e Francesco Pasqua.

E del loro libro: “La cucina incantata”. 

Mi diedi questa risposta, allora: non è mai troppo tardi, c’è sempre tempo per conoscere. Per scoprire, per apprezzare. E meno male. 

Qualche giorno fa, complice l’estate Argonautilus con la sua festa del grande blu e la Libreria Mondadori di Iglesias, “La ragazza che amava Miyazaki” è finito tra le mie avide grinfie, direttamente dal meraviglioso angolino che abbiamo creato per il Big Blue Festival: il nostro ArgoBook Shop, nuovo di zecca.

Autori, sempre loro: Fenoglio, Casini, Pasqua.

Giuro che questa volta, ancora di più, vorrei poter entrare nella magia che li spinge a scrivere in tre una storia che sa di una persona soltanto. 

Inutile dire che l’ho letto in pochissimi giorni. Catturata, trascinata in mezzo alle pagine dal bordo rosso, leggera come una foglia di ciliegio che vola e si posa sulle parole.

Sì, perchè questo libro parla di Giappone anche se la protagonista vive in Italia; questo libro è tutto permeato dall’influsso miyazakiano anche se racconta un’altra storia.

Sofia, diciotto anni.

Nerd incompresa in un piccolo paese che i suoi occhi pieni di meraviglia dipingono comunque come un posto incantevole, che somiglia tanto ai paesaggi degli Anime che tanto ama.

“Si presenta in tutto e per tutto come un borgo uscito fuori da un fantasy […] A guardarlo dall’alto, sembra più un sinuoso lombrico incastratosi nel bel mezzo di una scenografia di case basse, perlopiù costruite in pietra o in tufo, caratterizzate da graziose scalette esterne che affiancano balconi sempre adorni di fiori e di piante rampicanti.”

C’è il fiume, che le fa compagnia con la sua musica.

C’è Baron, il gatto rosso.

C’è Marta, l’amica roccia di cui tutte abbiamo bisogno. Sincera, leale, presente. 

E c’è, in qualche modo, nonno Guido.

“Non tradire mai il tuo talento.”

Cosa le manca allora, a Sofia? 

Ha diciott’anni. Le manca tutto e non le manca niente. 

Si porta dentro una nostalgia di secoli, di cose mai vissute e di quelle ancora da vivere.

Eternamente combattuta tra ambizione e amore, tra bisogno di comprensione e desiderio di affermazione. 

Tra paura e coraggio.

Devo ammetterlo, all’inizio ho pensato che fossero troppi, diciott’anni, per descrivere una ragazza così, in questo tempo fatto di Instagram e hasthag. 

Poi ho pensato che forse a stonare fosse proprio quello: entrare dentro l’anima di questa Sofia come fosse la mia, quando diciott’anni li avevo intorno ai famigerati 2000. 

E alla fine ho capito.

Lo possiamo leggere tutti, proprio tutti, questo libro. 

Perché parla di cose vere che chiunque di noi ha vissuto, seppure in epoche differenti, in contesti e con strumenti diversi.

Perché va al cuore di queste cose e lo fa con un mezzo usato in modo semplice e chiaro: il linguaggio, le parole. 

Che meraviglia!

Senza contare il pizzico di magia, spruzzato qua e là, a colori sopra un muro o in mezzo a coincidenze che sembrano assurde ma che se ci pensate un po’ più a fondo, non è affatto raro che possano accadere nel reale. 

Da dove le prenderebbero altrimenti, questi tre bravi autori, per raccontarcele?

No, non è tutto, solo merito di Miyazaki. 

Fatevelo un regalo, tornate i diciottenni che siete stati o che avreste voluto essere.

Sognate tutti  un po’  di più, dentro questo presente.

 © Erika Carta

ERA

ERA

Sul finire dell’estate di quell’anno ci incontrammo per la prima volta. 

Era il 2016.

Ci vedemmo di sfuggita, io ero arrivato da poco sull’isola, avevo sei anni. 

Correvo sulla battigia in costume, con i capelli castani lunghi e disordinati e le gambe bianche e smilze, sollevando spruzzi d’acqua e schiuma bianca, sabbia d’oro e risa.

Sullo sfondo si stagliavano alcune villette, una maestosa torre antica, il faro e molte rocce sedimentarie.

Venivo dalla città ma nemmeno i miei genitori o gli zii sapevano spiegarsi il perché di quel legame che sentivo con il mare. 

Un richiamo tanto forte che mi veniva da dentro e si agitava tutto negli inverni freddi che passavo a casa, affacciato alla finestra per scrutare un orizzonte che non c’era.

Ora, gorgogliava. 

E il mio sguardo nocciola sottile non riusciva nemmeno a pensare di acchiapparlo tutto. 

“Ma perché mai dovresti volerlo catturare?”

Mi suggerì una voce.

Era profonda come se arrivasse dagli abissi del mare, ma anche tiepida, come un soffio a pelo d’acqua.

Non avevo idea da dove provenisse.

Mi ero appena arrampicato su una roccia alta per guardare da più un alto, per avvicinarmi al mio elemento. 

Non vidi niente o nessuno che potesse avermi parlato, eppure quella frase mi aveva come frugato i pensieri, li aveva indovinati, resi vivi e smontati in un batter d’occhio.

“Vorrei tenerlo e portarmelo a casa, poi”.

Risposi, giustificando quel bozzolo di senso di colpa che si allargava dentro di me. 

E fu in quel momento che la vidi.

Affiorava piano dall’acqua, con portamento elegante. La testa grande e il rostro incurvato; rugosa e possente, si portava dietro la sua casa rossastra, sfumata di marrone scuro. 

Leggiadra, mi guardava.

Una tartaruga marina lunga quasi un metro e mezzo. Non ne avevo mai vista una in vita mia.

Non so dire se fu lei a perdersi nei miei occhi oppure io, a non rientrare mai più dal suo sguardo.

Fatto sta che l’aria divenne immobile, c’eravamo soltanto noi due e il mare che, indisturbato, suonava la sua musica. 

Com’era emersa, sprofondò nuovamente sott’acqua e soltanto quando mi mostrò il dorso mi scossi dall’impasse di meraviglia che mi aveva stordito e riuscii a gridare:

“Aspetta!”

“Io torno”. Disse.

“Me ne vado ma poi torno, sempre”.

Mi sembrava la promessa più bella che avessi mai sentito.

E così, tornai anch’io.

All’inizio dell’estate del 2017.

L’orizzonte lo avevo lasciato dov’era, perché era esattamente lì, che avrei voluto ritrovarlo.

Ero cresciuto appena dall’anno prima. Ben presto il mio fisico sarebbe cambiato: mi sarei asciugato ma irrobustito, le occhiaie scure sparite e la pelle bianca sarebbe divenuta un lontano ricordo. 

Andai dritto alla roccia e fissai per giorni il punto esatto in cui avevo visto la tartaruga.

Non venne quella settimana.

E nemmeno le restanti di giugno.

Ci rimasi male ma in un bambino di sette anni la delusione si rintana in un cantuccio dell’anima senza disturbare più di tanto, in quegli anni di spensierata gioventù. 

Feci amicizia con molti bambini e bambine della mia età, giocammo ogni giorno, costruendo castelli e fossati e mura di cinta. Raccogliemmo conchiglie con l’illusione che ci appartenessero per poi liberarle sulla riva. Era là che stavano bene.

Ogni tanto volgevo lo sguardo lontano, perdendomi per qualche istante.

Avrei dovuto aspettare agosto per rivederla.

I miei amici erano tutti partiti.

Questa volta, mi parlò che stavo sdraiato tutto solo sulla sabbia bagnata di una piccola caletta nascosta, facendo filtrare tra le dita quei pochi granelli asciutti che riuscivo a raggiungere.

“Sei felice”.

Mi disse. 

Non era una domanda.

“Come ti chiami?” 

Le chiesi.

Sembrava ci fossimo visti soltanto un attimo prima.

Si chiamava Era.

“Io sono Ricky”

“Lo so”.

Avrei giurato che sorrideva, come sorridono le mamme.

“Io non so un mucchio di cose”.

“Vuoi venire a fare un giro?”

“Come? Dove?”

“Sali”.

Mi indicò il carapace con un cenno della testa.

Balzai in piedi senza farmelo ripetere due volte.

Mi portò con sé, in mare, per il resto dell’estate.

Le chiesi se fossi pesante.

Rispose serenamente che non ero un peso, ma soltanto un valore aggiunto sul dorso dei suoi anni.

Mi parlò di ogni cosa. Di polpi e pesci.

Mi mostrò le rocce, illustrandomi la loro origine e l’evoluzione. 

Mi insegnò a stare in apnea, per vivere in profondità. 

La posidonia mi fece il solletico e il fondale si riempì di bollicine del mio ridere. 

Mi raccontò la storia di Medea e Giasone, dei suoi amici eroi, avventurieri. E della prima nave che, coraggiosa, si apprestò a solcare le acque:

“Si chiamava Argo”.

Sapeva davvero un sacco di cose.

Era saggia e mite.

“Ma tu dove vivi?”

Chiesi curioso.

“Io vivo qui. Ma anche più in là”. 

“E come fai a conoscere proprio tutto?”

“Sono nata sulla terra, proprio come te. Ma sento di appartenere a questo luogo”.

“Proprio come me”.

“Proprio come te”.

Forse era l’unica ad aver capito come mi sentivo.

Si percepiva persino nei momenti di silenzio e pace, come quello.

“Mi piace vivere nelle acque temperate, al sole che si riflette sulla superficie mandando i suoi bagliori fino in fondo. Giù, giù. 

Non sapevo nulla ma l’ho imparato viaggiando. Muovendomi e spostandomi, oltre i confini e le barriere, senza aver paura”.

“Sei una tipa solitaria?”

“Affatto! Ho tantissimi amici. E ho deposto un pezzetto della mia anima ovunque ne trovassi uno”.

“E io, un pezzo… lo posso tenere con me?

Te lo riporto l’anno prossimo”. 

Mi affrettai a dire, memore del monito che mi aveva lasciato in eredità l’estate prima.

Rise di cuore, muovendosi tutta e scuotendo anche me. Ridevo anche io, finché le nostre risate divennero una e si confusero con il moto delle onde.

Passammo così anche l’estate del 2018.

Fu magica.

Era mi cantò di Moby Dick e delle altre balene che le raccontavano le loro storie; di animali apparsi sulla terra e poi estinti, di piante buone e cattive, di grandi conchiglie, tutte diverse. 

Il castano dei miei capelli si era impreziosito, diventando biondo sole, il mio corpo abbronzato stava esposto alla salsedine e non mi dispiaceva affatto. Era la mia seconda pelle.

Sul finire di quei giorni splendidi cominciò a prendermi una strana malinconia, di quelle che portano in seno la dolcezza dei momenti non ancora finiti e una nostalgia precoce che ferisce appena.

Anche Era sembrava triste. 

Mi domandai se fosse colpa mia. Forse il malumore si spandeva a macchia d’olio impregnando chi stava nel suo raggio.

“No, piccolo. Vieni, ti mostro qualcosa che finora non ho voluto vedessi”.

Capii al volo che non sarebbe stata una cosa bella come tutte le altre. 

Dopo le innumerevoli albe e i tramonti fiammeggianti, la sabbia diamante in profondità e il vento che ci teneva compagnia, viaggiando da sud-est a nord-ovest, venni a conoscenza di quel qualcosa che Era mi aveva celato e che non avrei voluto scoprire.

Il flagello umano della plastica.

Galleggiava ovunque, in minuscole particelle dai colori ingannevoli che attraevano i pesciolini affamati. 

Era mi disse che i piccoli non sempre riuscivano a sopravvivere. 

E le creature più grandi non avevano maggiore fortuna. Delle volte finivano incastrate in buste trasparenti che si muovevano lente e sinuose come meduse.

Mi raccontò di Luccino, il cavalluccio marino diventato famoso, finito sui giornali, immortalato mentre nuotava aggrappato a un cotton fioc rosa, nel mare inquinato.

“Come stride questa immagine, Era”.

Lo dissi con tristezza, pensandoci.

“Sì, amico mio”.

“A te è mai capitato qualcosa di brutto?”

Sospirò.

E inspiegabilmente riprese il tono pacato di sempre.

“Sai, gli esseri umani non sono tutti uguali. Alcuni camminano inconsapevoli, si spostano pesantemente, corrono da una parte all’altra; non vedono nulla, non sentono, non si fermano a riflettere nemmeno una volta. 

E poi ci sono altri, che passano sulla terra leggeri. Sanno ammirare la bellezza del sole che si adagia sull’acqua lontano, guardano le gocce di rugiada sui fiori. Sono attenti.

Mi hanno salvata loro, quand’ero più piccola. La mia testa si era incastrata in uno di quegli orribili cerchi di plastica che tengono assieme le lattine di coca cola”.

“No…”

“Già. Per un po’, infastidita, ho vissuto così. 

Facevo finta che fosse una collana preziosa, per sopportarla meglio.

La trasportavo ovunque. 

Poi però cominciai a crescere e la collana si trasformò in un cappio sempre più stretto.

Un giorno, sfinita, capitai sulla riva di una spiaggia poco frequentata. Chiusi gli occhi piano, temendo che difficilmente li avrei riaperti. 

Ma nel raggio sfuocato della mia vista che si spegneva mi accorsi che uno di loro si avvicinava. O erano due. Non so.

Mi risvegliai, non so quanto tempo dopo,sulla stessa riva, con una sensazione molto diversa. 

Libera, finalmente”.

Non seppi cosa dire. 

Restammo zitti per il resto della serata. 

Lei comprese il mio silenzio attento. 

Volgemmo all’unisono lo sguardo al tramonto, non avevamo bisogno di aggiungere nessuna parola superflua, a quel momento. 

Quell’inverno però, non feci che pensarci. Testardamente. 

Successe qualcosa che soltanto in apparenza spostò da Era la mia attenzione.

In verità, non fece che rafforzare il mio scheletro di idee, già ben solido da un po’.

“Sei innamorato”.

Sorrise Era, quell’agosto del 2019.

“Ma come fai?”

Le chiesi sbalordito. 

Ancora una volta era riuscita a entrare nella mia testa senza bussare né disturbare, contro le mie barriere che immaginavo fatte di corallo. 

“Come si chiama?”

“Greta”.

“È un bel nome”.

“Era, ti ho portato un regalo.”

Un bellissimo impermeabile giallo sole, con il cappuccio, uguale a quello che indossavo io ma della sua misura.

Non me ne separavo da mesi. 

Per me, era il simbolo di un mondo che provava a salpare sulla nave dei giusti; luminoso nella notte, guidava l’essere umano verso la rotta del bene. 

Per la prima volta scorsi un’ombra dubbiosa sul suo volto.

“Questo ti proteggerà dai pericoli che incontrerai in mare, nei tuoi lunghi viaggi”.

Potrei giurare di aver visto scendere una lacrima dai suoi occhi così buoni.

Glielo feci indossare e partimmo insieme, ancora una volta.

Ogni estate portava con sé nuove scoperte. 

Quell’anno, Era mi parlò di letteratura, e non di una qualunque.

Conrad, Melville, Atzeni, Hemingway, etc.

Presi nota mentalmente di ogni nome e titolo, affamato di saperne di più, timoroso di perdermi una virgola, di non avere abbastanza ore e minuti per leggere.

(Se solo avessi immaginato quanto tempo si sarebbe scaraventato su di noi, la primavera successiva!)

Mi portò in un’antica tonnara di pescatori dove mi insegnarono i segreti della navigazione e i nodi marinari. 

Quanta ricchezza. 

La custodivo con cura, luccicante nel petto. 

Fu Era, questa volta, a dovermi aspettare.

Nel suo lento vagare, probabilmente si rese conto che qualcosa era cambiato. 

L’acqua e persino l’aria erano come… diverse.

Limpide. E silenziose.

Di sicuro non le era mai capitata una fortuna del genere.

La immaginai godersi ogni istante, vedere la natura nascere come fosse la prima, antica, volta.

Eppure, si sarebbe accorta che c’era una nota stonata in quella nuova sinfonia.

Ciò che inizialmente aveva scambiato per equilibrio, aveva un tassello mancante. 

Gli esseri umani.

Dove erano finiti? Come poteva girare per il verso giusto la ruota del mondo, con un ingranaggio inceppato?

Magari alcuni suoi amici e amiche del regno animale avrebbero millantato la nostra assenza come qualcosa di straordinario e giusto.

Ma lei aveva me. 

E io non c’ero.

E questo, per lei, era sicuramente sbagliato.

Agosto era prossimo al tramonto e trascinava via con sé quell’estate strana, riempitasi all’ultimo momento nella maniera più goffa e sbagliata di sempre.

E per questo, fondamentalmente, vuota.

Ma, il ventotto agosto duemilaeventi ci vedemmo di nuovo.

Salii sulla mia roccia alta.

Ero molto diverso da come mi aveva lasciato l’ultima volta, con il sole sulla pelle, il cuore pieno, la testa per aria e i piedi sott’acqua.

Ero tornato bianco e smilzo, i capelli e lo sguardo avevano perso la lucentezza che mi aveva accompagnato in quegli anni. 

Ma soprattutto, cosa avrebbe pensato Era di quell’affare celeste sbiadito che mi copriva naso e bocca?

Per una volta fui io a raccontare cos’era successo.

Una pandemia globale. Da cui difendersi con poche, confuse, armi.

Il mondo umano immobile per più di due mesi, costretto a guardarsi allo specchio. Rimestato e rovesciato su se stesso.

“Un’opportunità. Non trovi?”

Chiese Era, genuina.

“Immagino di sì”. 

“Sei triste”.

“É tutto molto strano, Era. Mi sembra che ogni cosa sia cambiata in peggio. Non riesco più a comprendere gli adulti, per esempio”.

Rimase zitta per qualche minuto, in cui ci guardammo negli occhi come la prima volta.

Mi sentivo già meglio.

Poi, sparì sott’acqua.

Mi lasciò solo per qualche giorno ma quando la rividi non potei fare a meno di rimanere stupito.

Indossava una mascherina, uguale identica alla mia.

“L’hai trovata in mare, vero?”

Scossi la testa amareggiato, ma lei sorrideva. Come sorridono le mamme.

“Vieni a fare un giro?” 

Mi alzai.

“Sali”. 

Mi disse indicando con un cenno del capo il carapace.

Le sorrisi anche io, pieno di gratitudine e pace.

Il germoglio della speranza rifioriva lento e paziente in un posticino profondo dentro di me.

Era tornata.

Lei tornava sempre.

© Erika Carta

Sicilia, ancora.

Sicilia, ancora.


Penso sempre che non riuscirò a dire, quando vivo intensamente qualcosa. 

Invece poi mi viene da scrivere, immediato e scontato come quando respiro.

Tolto il fatto che mentre vivo, parlo e parlo e parlo. (Come giusto qualcuno avrà notato).

Vero, Ciro?

Sono partita di nuovo per la Sicilia a distanza di due anni e sempre grazie a una persona che fa per mille, la cui passione ed entusiasmo trascinano, muovono tutto e tutti. Rosario.

In mezzo alle nostre isole c’è il mare. 

In mezzo a noi ci sono i libri, la voglia di raccontare e di ascoltare storie. Di scambiarcele, portarle qua e lasciarne qualche pezzo là. 

In quel gioiellino che è Acireale, la prima cosa che ho rifatto, naturalmente, è stata l’esperienza trascendentale della granita mandorla e caffè da Cipriani, il bar di fronte alla Basilica di San Sebastiano. Con brioscia, questa volta.

Seduta lì, ho tenuto tra le braccia una vita nuova, Beatrice, che è un dolcetto. Tutta guance, pieghette e occhi mediterranei.

Ho conosciuto due persone meravigliose, Giuseppe e Rita che hanno attraversato chilometri di caldo per passare un po’ di tempo buono insieme a noi. 

Ho varcato con emozione la soglia della Casa del Danzastorie, in Piazza Marconi dove grazie a una forza della natura, l’inarrestabile Alosha, “a chiazza fa scola”. 

Sono tornata nella cucina  in cui due anni fa ho scoperto la parmigiana di melanzane che meriterebbe un posto tra le meraviglie del mondo, più buona di quella di mamma e nonna. Una casa dove le persone che ci vivono, Camillo e Lucia, ti accolgono (e ti cibano) come fossi una nipote, una di famiglia. 

Ho maledetto una cosa che in molti, invece, benedicono, maledicendo me: l’aria condizionata. 

Sarà per questo che poi ho trovato salvezza cercando il vento, quello vero, su due ruote. 

Da Porto Empedocle ad Agrigento, da Agrigento a Racalmuto, chiacchierando in corsa con un’altra persona ritrovata tra pagine nuove, e riabbracciata. Roberto.

A rifarmi gli occhi di una Sicilia con i suoi colori chiari e scuri, a tratti diversa eppure così familiare.

Agrigento: nuova tappa da segnare tra i miei innamoramenti. 

Piena di contraddizioni che, altrimenti, mica mi piacerebbe.

Lunghe vie in cui ho scoperto si fanno le vasche, come da noi. Scale e scale, discese e salite strette che portano a vicoli nascosti, belli e brutti. Ringhiere in alto sul mare.

Una piazza che grazie anche all’impegno di chi ci lavora, come i ragazzi dello Scaro Cafe, raccoglie e restituisce, include.

Piazza Ravanusella, che è un po’ il motivo per cui ci siamo mossi e ritrovati tutti lì: Agrigento Noir, il festival letterario con direzione artistica di Salvo Di Caro, organizzato da Alessandro Accurso Tagano che coi libri, ci vive. 

E dove c’è letteratura, arriviamo anche noi.

Nella serata di Sabato sono stata (finalmente) spettatrice, in ottima compagnia, di un incontro che ha visto dietro i microfoni una squadra coi fiocchi.

Eleonora Carta e Ciro Auriemma insieme al grande Gaetano Savatteri, moderati da Rosario Russo e Tiziana Crisafulli. Un’orchestrazione equilibrata e coinvolgente, arricchita dalle letture di Ignazio Marchese.

Ho detto a Maurizio, amico mio e direttore artistico della Fiera del libro di Iglesias, che per una volta era seduto insieme a me dall’altra parte: “Sembrano un po’ le presentazioni nelle nostre piazze, quelle di qualità ma tra amici!”

E così è stato anche il resto della serata.

La cena in un luogo fatto di meraviglia, a Km 0, tema a noi molto caro, Casa Diodoros con il Tempio della Concordia, illuminato nel buio lontano della notte e nel verde arancio dei fichi d’india, a vegliare su di noi.

Racconti a bassa voce, coversazioni e risate innaffiate da Nero d’Avola, la minestra di tenerumi. 

Sera dalla quale credo sia cominciata, come l’ha definita Rosario, un’escalation di emozioni che ci ha portato a vivere poi una delle giornate più strane mai vissute. Surreale, onirica. 

Non so ancora se sia realmente accaduto ma credetemi sulla parola quando vi dico che un piatto di pasta pomodoro, olio, cipolla e basilico unisce le persone tanto quanto la lettura di un libro.

Entrambe le cose stimolano la conversazione, in cerchio, attorno al tavolo.

Scambio di energia allo stato puro. 

“Vi ho portato un po’ di pane caldo appena sfornato.”

“Questa nelle foto è mia nonna. Le ha scattate Enzo Sellerio”.

Cose così.

Quello che impregna la Sicilia e che noi non possiamo che sentire, forte e chiaro, è il richiamo di un’impronta letteraria dallo spessore incredibile, a due passi da casa.

Pirandello, Camilleri, Sciascia. 

Le vite, incrociate come le nostre.

Camminare nei loro luoghi, nelle strade che portano dentro le case dove hanno dormito, mangiato, pensato, letto, fumato e battuto a macchina le storie con cui a noi si sono presentati.

Un valore aggiunto a rafforzare il contatto unico che si crea tra scrittore e lettore.

Tenuto in vita da chi si impegna nel presente, come Salvatore Picone e Pippo Di Falco.

Racalmuto.

Il paese è umido. Non una di queste case è nata dentro l’occhio di un architetto; murate a gesso, si intridono di nebbia come carta assorbente, fioriscono all’interno di muffe.

Vecchie case con stanze che escono una dall’altra a cannocchiale, con scale storte e ripide. D’inverno ardono nelle stanze bracieri di quell’arida carbonella di gusci di mandorle, il calore risveglia un acre sentore di gatti, muffa e piscio di gatti.”

Leonardo Sciascia, 

Le parrocchie di Regalpetra.

Uno sguardo sfuggevole, nostro malgrado, a Catania, la prima città sicula che vidi due anni fa e ieri, prima di ripartire.

Torno da questa terra, dove ho lasciato un’altra volta un po’ di cuore, alla mia che il cuore ce l’ha tutto, solo ogni volta più ricco.

Felice, malinconica, grata.

Ancora immersa in uno stato di possibilità e impossibilità dell’accadere. 

Com’è la vita, no?

E, lo dirò sempre e per sempre: Grazie alla famiglia che è dentro Argonautilus, senza la quale niente di tutto questo sarebbe possibile, mai.

© Erika Carta.

L’implosivo

L’implosivo


Quando si conosce un autore e il suo libro geniale, potrebbe presentarsi qualche difficoltà nello scrollarselo di dosso. 

(E dove sta scritto che bisogna farlo?)

Perché, diciamolo: il “Don Chisciotte in Sicilia”, di Roberto Mandracchia… è un libro geniale. 

E infatti lo abbiamo detto e continueremo a farlo.

Ma.

Il cinque luglio di questa estate è arrivato “L’implosivo”. 

Dalla copertina, illustrazione di Patrizio Marini, alla storia zen di quattro righe piena di realtà, dalla casa editrice Minimum Fax a simboli che evocano altri simboli e nascondono aneddoti anche migliori, non posso che esserne conquistata. Subito. Appena lo vedo, appena lo compro, appena lo sfoglio. 

Poi.

Arriva lo smarrimento. 

Per una cinquantina di pagine cerco qualcosa di passato nel posto sbagliato.

E me ne rendo conto dal confronto con i miei amici e lettori attenti. (Ah, la meraviglia di parlare dei libri.)

Allora cambio chiave di lettura. E capisco.

Capisco che mentre Lillo Vasile, la solitudine ce l’aveva dentro… Carmine Stanga ce l’ha fuori. 

Cercai sul vocabolario la parola implosivo […] e scoprii che in verità esisteva e si riferiva in senso fisico all’implosione che, al contrario dell’esplosione, succedeva dall’esterno verso l’interno, […] ma c’era pure un senso psicologico: la sensazione che un individuo ha di avere il vuoto dentro, e la paura che il mondo possa invaderlo e cancellare la sua identità.”

Che l’empatia, con Lillo Vasile, è immediata ed è una coccola, tanto per lui quanto per chi ne legge le gesta.

Carmine Stanga invece, è il male.

Ma l’empatia arriva anche per lui, all’improvviso, in momenti che non ti aspetti, come questo:

Mi ero messo su uno scoglio a guardare il mare che si muoveva calmo calmo, con un suono calmo calmo preciso a quando strofini da una parte all’altra il dito su un foglio, sotto la luna e questo cielo nero che formicolava di stelle. Insomma me ne sono stato lì per un sacco e mezzo di tempo e quasi mi stavo dimenticando pure chi ero io, quando ho sentito una presenza alle mie spalle ed era lei. C’era un odore di pulito e poi pareva che tutte le cose intorno erano state create giusto per noi due e basta e giusto giusto in quel momento. La cosa che ricordo ogni giorno è che la Pillicusa, senza dire niente, così vestita com’era, s’è tuffata dallo scoglio accanto a quello dove ero seduto e poi è venuta fuori dall’acqua con la testa e ha guardato nella mia direzione. E io lo so come m’ha guardato.”,

mentre leggi e non te ne accorgi. 

Poi torna brusca la realtà, la violenza, il male appunto.

E ti disturba da morire, non avresti voluto provarla e dimenticare per un attimo di chi e di cosa stai leggendo.

Ma Roberto Mandracchia è bravo e sa trasmettere potentemente l’una e l’altra cosa.

E scrive pagine come fossero giorni in un casale sperduto di campagna. 

Conti insieme a lui le albe, i pranzi, le ore buie della notte, i dolori, le pastiglie per la prostata, i silenzi.

Leggi i pizzini, ascolti i ricordi, vivi l’azione, così, dal nulla.

E poi finisce, come doveva finire.

E poi, c’è Cagnolazzo. C’è Cagnolazzo?

E vorresti saperne di più. Ma di più non c’è e ti accorgi che è giusto così.

Allora.

L’ho ritrovato il Mandracchia che anche con umorismo dice la realtà ed è un’altra volta conquista, un’altra nuova, bella lettura. 

Un’altra volta, diversamente genio. 

© Erika Carta

I miei amici, Cormoran e Robin

I miei amici, Cormoran e Robin

In quattro mesi ho letto “Dieci anni con Strike e Robin”.

È successo da Aprile, complice la giornata “Iglesias come Hogwarts” e la chiacchierata con Massimo Battista, sul suo libro “Collezionare Harry Potter e altri libri di J.K.Rowling”. 

Ancora qualche sera prima, alla cena informale insieme ad altri ospiti della Fiera del libro di Iglesias, Ele è praticamente corsa da me: “Non hai capito! Massimo mi ha detto che dobbiamo assolutamente leggere i gialli della Rowling sotto lo pseudonimo di Robert Galbright!”

E quando un lettore dice a un altro lettore… “assolutamente” non ci si può tirare indietro. Come fosse un patto tacito e segreto, una promessa da mantenere. 

Così è.

E qua devo subito mettere in campo la mia totale sincerità: non lo sapevo. 

O meglio, avevo forse sentito vagamente questa notizia ma temo di non averle dato peso.

Ricordo che dopo Harry Potter, lessi “Il seggio vacante” e ne rimasi piuttosto delusa. 

Ma Hogwarts e la sua magia avevano appena scavato e insieme riempito tutto un mondo dentro di me e per lungo tempo non ci fu posto per null’altro.

Poi nel dolce amaro capodanno del 2020 con il coprifuoco alle dieci e a letto poco dopo la mezzanotte lessi il mio primo libro del nuovo, atteso anno: “L’Ickabog”. 

E tornai a innamorarmi di lei.

Così fu per “Il maialino di Natale”.

La J.K. Rowling che conoscevo. 

Quella che dietro ogni grande storia, ogni piccola parola, nasconde un significato che diventa tuo per forza. Chiunque tu sia. 

Qualche giorno dopo la Fiera, sono finita nell’abbraccio della Libreria Mondadori, da Stefy e Lella e il caso ha voluto che avessero il secondo libro di questa serie di gialli di Robert Galbright: “Il baco da seta”.

Titolo accattivante, trama fitta di misteri, indagini, messaggi subliminali legati a scrittori e case editrici, truculenti omicidi che ho buttato giù solo per loro… Cormoran Strike e Robin Ellacott. 

La mia follia nuova di zecca, la mia rovina. 

Tra ordini e regali sono arrivata al punto in cui mi trovo adesso. 

Luglio di un’estate che non è estate e sei libri, su una mensola dedicata, che in questi mesi hanno completamente assorbito la mia attenzione di lettrice. L’ultimo, il settimo, è in lettura. Ne scrivo ora perché credo che una volta finito dovrò fare i conti con un po’ di vuoto.

Solitamente leggo vari libri in contemporanea.

Robert Galbright mi ha fatto riscoprire la possibilità che qualche volta, semplicemente, non è fattibile. Non può funzionare. 

E ora vi spiego il mio perché.

Li avrei letti con lo stesso trasporto se non avessi saputo che a scriverli è stata la mia Regina J.K. Rowling? Li avrei letti?

Non lo so.

Quello che so è che, avendo questa consapevolezza, l’ho riconosciuta dalle prime pagine. L’ho sentita nelle minuziose descrizioni di ogni cosa. I luoghi, che pare di avere davanti, dentro, dove sembra di camminarci, posti a cui appartenere. 

Le trame zeppe di dettagli che possono sembrare insignificanti ma che alla fine si incastrano alla perfezione, srotolando sempre il bandolo della matassa.

Ma soprattutto, i personaggi.

La Rowling, se proprio vogliamo continuare con la sincerità, ha un po’ la pecca di essere ripetitiva. Difetto che si trasforma in pregio quando cominci a capirne il perché.

E lo fai, collegandoti inevitabilmente alla storia di Harry Potter… e di Hermione, Ron, Silente, McGranitt, Sirius, Piton e via discorrendo.

Questi personaggi, che sono entrati nell’immaginario collettivo, ne sono anche usciti… per viverci a fianco. 

Non possiamo dire il contrario!

Sappiamo tutto di loro, ne facciamo spesso riferimento quando accade qualcosa nella nostra realtà.

E così è per i miei nuovi amici, Cormoran e Robin, appunto. 

Li descrive in continuazione, tanto da imparare a memoria che lui, corporatura da ex pugile, naso storto, capelli che sembrano “peli di pube” e lei capelli biondo rame, occhi grigio azzurri; oppure che a lui tira il tendine del ginocchio alla base del moncone perché ha perso una gamba quando è saltato in aria nell’esercito e lei si sente sminuita quando sta con Matthew ma è lui ad esserle rimasto accanto dopo quello che le è accaduto all’università.

Ed è questo: un attimo prima te li sta appena presentando e l’attimo dopo hai letto millemila pagine e li conosci intimamente.

Ti attacchi alle loro vite, ai pensieri, ai luoghi che frequentano, Denmark Street, il Tottenham e vuoi sederti con loro a bere una pinta di Doom bar e un bicchiere di vino rosso. E prendere la brutta abitudine di fumare Benson & Hedge e bere il the a ogni ora, forte, ambrato… del colore giusto come solo Robin lo sa fare.

Eccolo l’arcano segreto, quello per cui non so se li avrei letti altrimenti… ma li ho letti.

Perché li ha scritti lei. 

Robert Galbright è J.K. Rowling. 

Mi basta e avanza e questa è la sua grandezza: prendere un bel pezzo di qualche suo mondo e donarlo per intero a chiunque legga le pagine dove, con magia, lo ha trasposto.

©Erika Carta

Vita immaginaria

Vita immaginaria


Un lunedì notte di quasi metà Maggio.
Volo Torino Cagliari. Cerco il numero segnato nella carta d’imbarco, ripongo il bagaglio, prendo posto, mi do una sistemata.
E poi tiro fuori un libro.
Uno della decina che sono riuscita a incastrare, con attenzione, nella tasca dello zainetto sotto il sedile. Sono stremata, penso che a breve mangerò a casa e dormirò nel mio letto ma devo leggere.
Ora devo leggere.
Non mi sorprende ma mi fa molto sorridere che appena do uno sguardo fugace attorno a me, vedo altri che fanno esattamente lo stesso. Credo sia il volo più letterario a cui si possa partecipare. Ci sono persone che conosco, alcune sono state con me nei giorni appena trascorsi, altre non ho idea di chi siano… ma leggono. È bellissimo.
È il primo effetto del Salone Internazionale del Libro di Torino. Poi devo ammetterlo, un po’ li chiudo gli occhi in volo e lì, tra il nero delle palpebre e tutto quello che c’è dietro, continuo a vedere gli stand numerati, le frecce che indicano i padiglioni, la moquette celeste, le svolte tra i corridoi, i grandi cartelli con le lettere in alto, la gente, la torre di libri. Sono così sollevata che un po’ di quella magia rimanga ancora incastonata lì dentro a tenermi compagnia. Vedo lo stand K149, Argonautilus – Fiera del Libro di Iglesias, comunemente chiamato “da noi” nei giorni in cui ha fatto da appoggio, punto di partenza e di passaggio di tanti ospiti e amici, casa.
Suona così bene… “da noi”.
Ci riabbracciamo come se non ci vedessimo da tanto quando invece abbiamo ancora, meravigliosamente addosso, la nostra Fiera. Loro sono qui dall’inizio e sono provati ma felici di vederci arrivare. Hanno fatto già un gran lavoro. 
Sento le voci, le risate, le chiacchiere degli amici che da cinque anni mi rendono la possibilità di vivere esperienze come queste che sono diventate routine, ritorni, ma che serbano sempre qualcosa di nuovo da imparare, da aggiungere. 
Nuove persone, idee, scambi, progetti, segreti, accorgimenti per vivere al meglio la bolgia che inevitabilmente trascina in un mix di gioia e mal di piedi. 
Io, respiro gratitudine. Mi sento molto fortunata ad esserci.
Sono stata a un evento che tra capire dove andare, coda, incontro in sé, fuga ed ennesima fila per il firma copie mi ha tolto circa tre ore di tempo ma mi ha dato un solo pensiero: GRAZIE.
Joël Dicker ha detto: “Io non scrivo per compiacere i lettori. Io scrivo per condividere.”
E io, sono un’eterna sostenitrice della condivisione. Trovo sia la forma più bella di quell’Attenzione che tanto abbiamo sviscerato nel nostro Aprile. A un passo da noi, nello stand della Regione Sardegna, ieri e oggi hanno convissuto in armonia come davvero, da un po’, succede nella nostra Terra. Le radici sostengono questo presente in fermento, che rivolge uno sguardo al passato e tende fortemente al futuro. Tutto ciò, grazie all’importanza della comunicazione e aggiungendo sempre più nodi alla rete che da tempo Argonautilus ha teso tra le diverse realtà della nostra isola e oltremare. C’è un solo centro attorno al quale si crea e si espande questa rete: il libro, i libri. 
La lettura, la scrittura, le parole. E il Salone Internazionale del Libro è la dimostrazione in gigantesco, di quanto si possa fare. Essere una parte infinitesimale di tutto questo, rende felici. 
Abbiamo chiesto, scherzosamente, al ragazzo che lavorava e gestiva la fila nei bagni, cosa avesse da sorridere ancora, al quinto giorno di Salone. Lui ha risposto che gli veniva naturale. Tutte le cose assumono significato dalla prospettiva in cui le si guarda, dal vivo.
Come da un sorriso, stanco ma presente.
Poi c’è Torino. Una città che non ho apprezzato da subito, che all’inizio mi era parsa piatta, troppo somigliante a qualcosa che non mi piace, ostile. Quanto sono felice di essermi sbagliata. Sarà che la vedo con occhi che pescano le sensazioni da dentro ma ora, di Torino, m’innamoro sempre di più. È così elegante, variegata, senza pretese. Non si impone, ma silenziosa ti entra nelle viscere a piccoli passi, a partire da una notte quasi gotica di primavera per continuare al sole, in mezzo al verde di un parco. È bella anche quando piove, seppure odi la pioggia. Mi sfida a uscire fuori nel terrazzino di una casa che amo, per guardare gli alberi e i suoi tetti dall’alto. 

“E tuttavia in qualche momento abbiamo pensato che, se non avessimo avuto una vita immaginaria, non avremmo forse trovato le strade della vita creativa.”
Natalia Ginzburg

© Erika Carta

Iglesias come Hogwarts

Iglesias come Hogwarts

Hogwarts non era mai stata qua.

E me ne rendo conto soltanto ora. Ora che la  Fiera del Libro di Iglesias si è conclusa lasciando già dietro sé una scia di quelli che diventeranno, come ogni volta, ricordi preziosi e semi nuovi a cui prestare Attenzione.

Il 25 Aprile dell’anno corrente, si prenda nota, Iglesias è diventata “Iglesias come Hogwarts”.

Per la prima volta ho visto realizzarsi un sogno, di cui personalmente avevo avuto un meraviglioso assaggio per i miei trent’anni, su larga scala.

Argonautilus, Iglesias e Hogwarts.

Casa. 

È così che le considero, tutte e tre. 

La mia casa Argonautilus ha portato a Iglesias, casa mia, Hogwarts… che è casa.

Non so se rendo l’idea.

Io che ho sempre un mare di parole, questa volta non sono sicura di riuscire a esprimere davvero quello che provo.

Forse perché ancora non ci credo, forse perché tutto mi sembra essere accaduto in una dimensione… magica.

“È vero tutto questo? O sta succedendo dentro la mia testa?”

“Certo che sta succedendo dentro la tua testa. Dovrebbe voler dire che non è vero?”

Harry Potter non morirà mai.

Ci sarà sempre qualcuno che ne parlerà, ci sarà sempre più d’uno che lo rileggerà e ci sarà sempre chi, abbassate le difese, i preconcetti, si accingerà a conoscerlo intimamente per la prima volta e non lo abbandonerà più.

Lo amerà. 

Perché difficile è il contrario.

J.K. Rowling a un certo punto ha sentito il bisogno di raccontare ciò che aveva dentro, solo lei sa cosa. 

E lo ha trasformato in quella che è diventata una storia immensa, mondiale. Unica.

“Non ci sarà bambino nel nostro mondo che non conoscerà il suo nome.”

I libri di Harry Potter sono davvero come un abbraccio a cui tornare “ogni volta che sei arrabbiato o spaventato”. 

Sempre.

E così, Argonautilus, arrivata alla IX Edizione della Fiera del Libro di Iglesias ha pensato bene di celebrare questa magia dedicando una delle quattro giornate proprio a Harry Potter, con una Edizione 0 di “Iglesias come Hogwarts”.

Ricordo come ha preso il volo questa idea… a partire naturalmente dalle pagine dei libri, dalla lettura. 

A quanto tempo è rimasta ferma nell’incertezza e nel silenzio. 

A quando, in una sera non lontana, l’Esercito di Silente ha preso in mano la situazione, ha ingranato la marcia ed è partito definitivamente senza poter tornare più indietro. 

A quante volte ha vacillato e infine a come realmente si è realizzata.

Mi viene da sorridere con tutto il cuore. 

Posso immaginare la reazione dei potteriani di ogni età, sfegatati come me, davanti a questa bella notizia. 

Mi rifletto nei loro occhi che si illuminano, la dignità che “un minuto prima era lì e poi è sparita, come per magia!

Timidamente abbiamo iniziato a coinvolgere qualche commerciante, per lo più babbani, se devo essere onesta. 

Ma una cosa è assolutamente certa. Qualcosa di te li ha fatti sbarellare. Per questo sei famoso, per questo tutti conoscono il tuo nome: tu sei il bambino che è sopravvissuto.”

È successo che la magia è diventata tangibile prima ancora di palesarsi.

Orde di bambine e bambini si sono iscritte ai laboratori che abbiamo pensato per loro.

Ragazzi e ragazze dei gruppi di lettura di ArgoCircolo Letterario sono stati al gioco, lavorando sul tempo per diffondere la notizia, pensando al travestimento migliore.

C’è chi, singolarmente, ha creato in silenzio e con amore soltanto per donare qualcosa. 

Seconda Stella Eventi si è unita alla nostra “battaglia” come Aberforth si unisce a quella di Hogwarts, sulle battute finali, potenziando di gran lunga il successo che speravamo di ottenere.

Iglesias si è letteralmente mossa all’unisono come se avesse udito la Professoressa McGranitt dire: “Piertotum Locomotor!”

Ho sempre desiderato usare questo incantesimo.”

Negozianti, bar, farmacie, hotel, gelaterie, ristoranti, pasticcerie hanno lavorato come i musicisti del Circolo Verdi di Iglesias… ognuno con il proprio strumento ma in sincrono per essere partecipi in questo mondo che lega, unisce, gioisce. 

Il risultato è stato girare per le vie del centro come fossimo catapultati nel luogo che da sempre, più o meno segretamente, desideriamo abitare.

Hogwarts!

Con lo stemma e le sue case. 

La Sala Grande, la classe di Pozioni, il binario 9 3/4 con il carrello pieno di valigie, gabbie, bauli, pronto a scomparire.

Diagon Alley con il Paiolo Magico, il Ghirigoro, il negozio di Accessori per il Quidditch, Magie Sinister; Hoghsmeade con Mielandia e I tre manici di scopa.

Spingersi fino a Via Nuova e vedere ragazzi in divisa Serpeverde affrettarsi verso Piazza Pichi, bambini Grifondoro con i nasi attaccati alle vetrine agghindate per l’occasione… “Guardate che roba, la nuova Nimbus 2000”. 

Cagnetti con il mantello e una capra… sì, una capra con cappello a punta, Merdules, che ha vinto il contest “Animali Fantastici”… stregando tutti!

Grazie a Massimo Battista, ospite d’onore in questa giornata a tema, esperto di prime edizioni rare, collaboratore con una libreria indipendente di Trieste, ricercatore e autore del libro “Collezionare Harry Potter e altri libri di J.K. Rowling”, ho riscoperto la Rowling che ha voluto smettere per un attimo di essere la J.K. Rowling di Harry Potter ed è diventata Robert Galbraith, mettendo su un’altra serie di romanzi, gialli questa volta, con protagonista Cormoran Strike. Mi affezionerò anche a lui, lo so.

La cosa più bella però sono stati i Grazie, quelli spontanei, venuti da sé.

I genitori che ringraziano per la gentilezza e l’attenzione, i bambini che ci ripagano con i loro sorrisi, senza parlare.

Adulti che a bassa voce confessano: “comincerò anche io, a leggere Harry Potter.”

Ragazzi e ragazze immersi nella magica atmosfera che ci fermano soltanto per dire: “è stato emozionante passeggiare per le vie, vedere tutto questo, con in sottofondo le musiche che ben conosciamo. Ci è venuta una bolla allo stomaco.”

Come non associarmi a tutto ciò. Essere insieme mittente e destinataria di questa magia, che è soltanto all’inizio, mi fa dimenticare tutte le cose babbane che mi circondano.

Ma avendo letto e riletto e riletto i libri della  saga che insieme a me ha unito milioni di persone alla lettura, non posso che aver imparato dal Professor Silente, come Harry, che “Non serve a niente rifugiarsi nei sogni e dimenticarsi di vivere.

© Erika Carta