Ci sono momenti, al Salone del Libro di Torino, dove, anche se pare difficilissimo, ci si riesce a isolare per vivere una delle emozioni più grandi che si possano provare: essere lì.

Eravamo lì, io Ele, Mauri, Dami, Vale e Tino, per festeggiare oltremare i primi dieci anni della Fiera del Libro di Iglesias, per raccontare le nostre cose belle e il territorio, insieme ad Attilio del Consorzio Turistico per l’Iglesiente.

L’isolamento di cui parlo però è un concetto che va oltre “l’esclusione da rapporti o contatti con l’ambiente circostante” come cita il vocabolario alla sua voce. 

Sono istanti di assoluta presenza corporea e mentale in quello spazio e in quel tempo: esattamente corrispondenti.

C’è chi li trova attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica mentre immortala volti e sorrisi (umani e canini); chi, mentre si perde tra le pagine degli albi illustrati o riesce a partecipare, sotto il sole, all’evento che aveva previsto di vedere. Ancora, chi apre una bottiglia di vino e ne offre un bicchiere ai vicini; chi non ha voglia di andare in giro, perché ne ha tutto il diritto ma poi si ritrova alla torre di libri per giocare e mettere il proprio accanto a quello di Stephen King. E chi ogni tanto, a intervalli irregolari e nonostante il male al collo e ai piedi, sente la spinta necessaria a farli questi giri, per vedere… per credere di essere lì, dove sognava di andare, dove l’indescrivibile impatto della prima si rinnova ogni volta ancora. Sempre.

Estraniarsi per trovarsi.

Seppure immenso, dispersivo, esagerato, polemizzato, invischiato, criticato, esaltato, giusto o sbagliato che sia, il Salone del Libro di Torino apre letteralmente le porte a un universo dentro l’universo. 

E non so, ma penso che la differenza di ciò che lascia, nasca dagli intenti con cui si parte e si attraversa questo viaggio.

Quello che io vedo con i miei occhi in questo mondo di Maggio dentro il Lingotto, sono gli ingorghi nei lunghi tappeti (furono verdi quest’anno prima di diventare color di millemila passi) dei corridoi, di persone che camminano e camminano all’infinito, perché cercano gli stand che vogliono visitare, le case editrici da scoprire, gli amici da salutare, le autrici che sperano di incontrare, il trancio di pizza che vorrebbero mangiare per ricaricarsi all’ora di pranzo. Ma soprattutto vedo persone ferme, con i piedi piantati a terra, davanti a banconi stracolmi, con gli sguardi bassi concentrati a scegliere libri, sfogliare libri, lavorare con i libri, comprare libri, scambiarsi libri, parlare di libri, leggere libri.

Oh, sì. 

Che meraviglia. 

Ho questa immagine nelle palpebre quando le chiudo, ora che sono tornata felice nel mio letto in Sardegna.

E penso, appunto, a quello che ho portato con me da qui a lì e da lì a qui.

La gratitudine. 

La sensazione familiare che Torino è anche casa mia, sempre di più.

La gioia del lavoro, degli incontri, delle bandiere, delle risate, delle medicine, del cibo, dei balconi e dei tetti; le storie, la promozione, le idee, la stanchezza beata, la condivisione con i miei Argonauti.

Le parole tra noi leggere.

E i libri, naturalmente. 

Molti libri.

Troppi libri.

Mai abbastanza libri. 

Erika Carta