E venne il Natale

E venne il Natale

Perfino Novembre, a parer mio il mese più triste dei dodici, ogni volta se ne va. E lascia arrivare Dicembre che gentilmente porta scintille di magia di giorno in giorno, fino a esplodere intorno al 25. 

Io, la magia, l’ho vista da bambina. L’ho vissuta fuori e dentro e lì è rimasta, a crescere con me. Attaccata con tutta l’energia possibile per non scivolare via, impegnata a esplorare sempre nuove vie non potendo, ahimè, tornare su quelle percorse.

È un carico importante, necessario. 

Tra le tante cose che rilucono, ce n’è una che non è un diamante, non è un festone colorato, non è una lampadina intermittente.

Ormai è diventato come un appuntamento fisso, lo aspetto da svariati anni, ogni Dicembre.

Non è un gioiellino ma è come se lo fosse. 

È un libro, naturalmente.

È piccolo, con la copertina bianca e dei cerchietti satinati che riflettono l’esterno. È così che si crea il gioco di luci che pare lo faccia brillare.  

I nomi degli autori sono scritti in nero e il titolo in un bel rosso e ha, da un lato, un disegno un po’ vintage, sempre diverso che ricorda le vecchie cartoline di auguri per Natale.

Sto parlando dei libri della collana “Natale ieri e oggi” della Graphe.it, la casa editrice umbra che recentemente è diventata maggiorenne. 

Dentro queste pagine c’è sempre una poesia, un racconto del passato e un racconto di un autore o di un’autrice del presente. 

(Un po’ come le visite che riceve Scrooge, tolta quella del futuro!)

Quest’anno, la poesia è “Le ciaramelle” di Giovanni Pascoli.

“suono di chiesa, suono di chiostro, 

suono di casa, suono di culla, 

suono di mamma, suono del nostro

dolce e passato a piangere di nulla”.

Il racconto del passato è dello scrittore e giornalista Paolo Valera, vissuto tra il 1850 e il 1926, che si fa testimone realistico della vita dei più bassi strati socialie ci parla del giorno di Natale dentro al riformatorio di Finalborgo. 

La tristezza di Natale” che si sente in ogni parola ma che lascia spazio a episodi di gentilezza e commozione, insieme a un barlume di speranza.

“Non sono dunque completamente perduti. Credetemi, l’uomo che ha ancora la rugiada del cuore, è ancora un essere redimibile. […]Te lo giuro sull’anima mia: non dimenticherò mai questo momento del Natale in galera. È un episodio che mi resterà nella memoria in eterno. Mi hanno intenerito come un fanciullo.”

Nel racconto di Eleonora Carta, invece, mi rendo conto soltanto ora mentre lo scrivo, il titolo rende l’idea di cosa è narrato e da dove, esattamente, arriva… “Dal profondo”.

Se vi farà lo stesso effetto che ha prodotto in me, vi ritroverete a leggere un po’ guardinghi l’inizio per poi proseguire con curiosità, arrivando a un punto in cui non è più possibile fermarsi e in apnea, seguire una scia di luce fino alla fine. 

E scoprire che no, non è la fine. Anzi.

“Non ho bisogno di respirare e questa non è apnea ma un nuovo modo di essere. Lo stesso, provo la necessità di salire verso l’alto, e con una foga sconosciuta, perché è la mia mente, non i polmoni, ad avere bisogno di aria.[…]

Ascolto la notte e l’unica cosa che mi giunge alle orecchie è il grande respiro collettivo di queste creature che mi abbraccia nel suo inspirare ed espirare e l’aria è colma di calore e del flusso di luce che discende dal cielo[…]

Quello che mi ha lasciato la lettura di questi racconti, in una notte di Dicembre, è la sensazione che molto più spesso di quanto riusciamo ad ammettere, l’essere umano è il peggior carceriere di sé stesso. Sarebbe molto meno doloroso accettare le cose fatte nuove semplicemente per quello che sono: soltanto… nuove.

E mi hanno fatto riflettere sul fatto che certe volte, l’unica, necessaria scelta da compiere è quella di credere fortemente in qualcosa. 

E venne il Natale.     

Nella città invisibile

Nella città invisibile

Prendo in prestito un concetto che è stato il fulcro sotteso della trascorsa edizione della Fiera del Libro di Argonautilus: il luogo. Inteso come spazio fisico e come identità. Meta di partenza, passaggio, arrivo e nostalgia. Specchio e lingua dove riconoscersi.

E si sa, per muoversi nei luoghi servono le mappe.

Ora, una domanda: come ci si orienta in un posto invisibile?

Italo Calvino ce l’ha raccontato attraverso i dialoghi tra Marco Polo e Kublai Can.

E Gianmarco Parodi, invece, ci ha raccontato Italo Calvino portandoci “Nella città invisibile”. 

Fresco di stampa, il suo nuovo lavoro edito da Piemme, ha come sottotitolo: “Viaggio immaginario nei luoghi calviniani”.

Io, Sanremo non l’ho mai vista. Come non ho mai visto di persona “i sentieri dei nidi di ragno” o l’albero de “il barone rampante”. Ma vi assicuro che ci sono appena stata, non l’ho soltanto immaginato.

Sì, sì, esattamente.

Il viaggio è cominciato dalla banchina in fondo al vecchio porto. Tra cancelli, albe, tramonti, domande e risposte ho camminato, insieme a chissà quanti altri avventori nella città di questo ragazzo, Gianmarco, che immagino calcare le orme di un gigante della letteratura, con rispetto e coraggio. Zaino, libro in mano e occhi pieni di meravigliosa attenzione.

Così, non sentiamo solo parlare del Calvino scrittore ma anche del Calvino uomo. Certo, io mi chiedo se debbano per forza essere due entità distinte e no, la risposta che trovo di riflesso tra queste pagine è: no. Tutt’altro.

[…] alla fine la vita privata e l’opera di uno scrittore non sono poi così distanti. L’una si nutre dell’altra[…] trasformando entrambe in oggetti  tanto visibili quanto invisibili. […]

Chi scrive trova il modo di parlare di sé, sempre. 

Forse, si può scambiare posto ai fatti, aggiungere un tratto a una persona, toglierlo a un’altra. Disseminare indizi tra le righe. E anche io sono certa che ogni parola raccontata affondi le sue radici nell’infanzia. Che poi evolve come fa la vita stessa.

E cos’è che si mantiene vivido con maggiore intensità nel cuore di un bambino? Di un ragazzo? Anche e forse, soprattutto, quando ci si allontana?

I luoghi… e chi li ha abitati, naturalmente.

Così grazie alla sua scrittura, trasparente come lo specchio d’acqua su cui torniamo sospesi, possiamo vedere anche noi la Sanremo di Calvino ma anche quella di Gianmarco e dentro… tutte le città possibili. 

Erika Carta

Paolo Nori a Portoscuso

Paolo Nori a Portoscuso

Stavolta mi ci è voluto davvero un tempo insolito per pensare di esprimere la bellezza che ho interiorizzato.

Il 28 giugno, Paolo Nori è stato ospite di Argonautilus per il primo appuntamento di Fiera del libro di Iglesias 2023 Mappe, Il Festival.

Protagonista, il monologo “Noi e Anna Achmàtova” in riferimento al romanzo, “Vi avverto che vivo per l’ultima volta.”

In una notte tiepida dal profumo d’estate appena annunciato, Paolo Nori ci ha come ipnotizzati. Ascoltarlo è stata una fortuna e un onore, una di quelle occasioni che qui, in Sardegna… quando ti ricapita?

Il comune di Portoscuso ci ha accolti all’Antica Tonnara di Su Pranu, un luogo che sprigiona energia e che sembra raccogliere sempre e soltanto cose magiche. 

Nori ha introdotto il suo discorso così: io sono narcisista.

E mi ha conquistata dalle prime battute.

Perché, parliamoci chiaro, ammettere il narcisismo, pronunciarlo, è il primo passo attivo e necessario per dargli un confine, arginarlo affinché non si espanda, non diventi infestante.

E per comprendere le cose da altre prospettive.

Scavalcato questo muro, il resto è stato un racconto all’insegna dell’amore. Della passione pura e sfrontata per un paese e per la sua letteratura.

Da Gogol, a Dostoevskij, passando per la prospettiva Nevskij, per le notti bianche di una San Pietroburgo presente e passata, sempre viva dentro pagine e pagine di libri immortali.

Paolo Nori ci ha raccontato la vita di una scrittrice, una donna coraggiosa.

Anna, nata Gorenko il 23 giugno del 1889, davanti al narcisismo incurabile del padre che l’ha messa davanti a una scelta: scegli me o la poesia, ha cambiato cognome, prendendo quello di una sua antenata e diventando così la nostra Anna Achmàtova, una delle poetesse russe più importanti del secolo.

“Lascio la casa bianca e il muto giardino.
Deserta e luminosa mi sarà la vita”

Non si può eludere il contesto storico, sociale e politico ma la letteratura è altro, è oltre.

Scardina le imposizioni, aggira la disapprovazione, dà nome a tutte le cose. 

La letteratura quando è raccontata così, desta l’attenzione, il senso critico, la bellezza.

Nemmeno una zanzara sembrava volare nella sera incantevole del 28 giugno all’Antica Tonnara di Su Pranu a Portoscuso, quando Paolo Nori ha perpetuato l’incantesimo affermando che “la letteratura è più forte di ogni censura e di ogni dittatura.”

©Erika Carta

FieraOFF: Antonio Boggio “Delitto alla Baia d’Argento”

FieraOFF: Antonio Boggio “Delitto alla Baia d’Argento”

Circa un anno fa, era luglio, feci la conoscenza di un commissario di polizia arguto e sensibile, Alvise Terranova.

Si occupava di un “Omicidio a Carloforte”, muovendosi tra la vita e la morte di un parroco misterioso, tra colazioni abbondanti senza cui la giornata non poteva cominciare, i dischi di Tom Waits, il buon vino, il passato prossimo, le donne.

Tutto avveniva dentro le pagine profumate di un libro, edito da PIEMME e nato per mano o meglio, per penna di Antonio Boggio. 

Dopo legittima attesa, il Commissario Alvise Terranova è tornato a noi, avidi lettori.

Insieme a lui emerge di nuovo, dal mare, la nostra isola nell’isola che si fa sempre più grande, sempre più vicina, come vista dall’arrivo in traghetto.

“Erano le otto e quaranta, il sole era appena tramontato ma il nero della notte non aveva ancora coperto lo specchio di mare tra le braccia del porto. I lampioni appena accesi sembravano smarrirsi in quell’atmosfera ovattata dove il giorno non se n’era ancora andato del tutto. Le automobili si susseguivano sul lungomare, la gente a passeggio sembrava attraversare un filtro pastello in un film noir anni cinquanta.

E mentre il solito allevatore paesano denuncia il furto delle solite sette galline, a Carloforte, dove non succede mai niente, succede invece che un uomo viene trovato morto.

Si tratta questa volta di un imprenditore, Giulio Mazzini, il cui corpo viene scoperto da alcuni operai una mattina di luglio, sotto le macerie di un Hotel prossimo alla demolizione.

L’Hotel Baia d’Argento.

Si apre così la vicenda madre attorno alla quale si snodano i personaggi del U Paise con le loro vite intrecciate e ogni elemento, anche il più insignificante, collegato a un altro e a un altro ancora fino a quando tutti i nodi si sciolgono, la trama si dipana e il caso viene risolto.

Ma, come ogni volta che mi accingo a leggere un giallo, ciò che mi tiene incollata alle pagine non è mai questo.

Non me ne vogliano, i lettori giallofili, né lo stesso autore se esprimo con solerzia che non mi importa chi sia l’assassino! 

A onor del vero ho seguito le indagini e i ragionamenti del Commissario e della sua squadra come fossi lì, con loro. Ho provato, come faccio sempre, ad anticipare la soluzione, cercando indizi nascosti tra le righe, mai certa del risultato fino alla fine.

Ma, ripeto, c’è dell’altro se leggo quattrocentoventi pagine senza rendermene conto, da una notte all’altra, interrompendo di tanto in tanto per un lieve bruciore agli occhi.

È come quando ci si disinteressa della meta di un viaggio perché bello, è il viaggio stesso.

Così, con questo Delitto alla Baia d’Argento ho ritrovato con gioia una vecchia conoscenza, Alvise. 

Umano in ogni sfaccettatura, così caratterizzato da riconoscerlo familiare dopo tempo.

Capace, determinato sul lavoro, critico e ironico con sé stesso e con gli altri. 

Ci sono state scene comiche in cui ho immaginato la reazione del suo viso, come fosse amico mio.

Questa volta ci ha altresì permesso di scavare più a fondo nell’anima della sua persona, nel passato remoto, sovrapponendo al presente ricordi pieni di quella nostalgia agrodolce che è tipica degli anni novanta (forse perché la provo anche io!)

Nei suoi ricordi ora poteva vedere le biciclette sfrecciare, le ginocchia sbucciate, i copertoni roventi sul cemento accidentato. Allora l’entusiasmo era una cosa semplice.

Ci ha consentito di entrare in punta di piedi nella notte che si porta dentro. 

Ma sapete? Si dice spesso, per chi è troppo allegro, che c’è sotto qualcosa. 

Non sono più d’accordo. 

Non si deve nascondere proprio un bel niente.
Chi ha luce, ha buio.

E sono uno al fianco dell’altra.

Ed è questo, forse, che rende persona il personaggio di un libro e tangibile tutta la sua storia, passata e presente.

Aveva sempre diviso la sua vita in due parti, un po’ come i vinili o le musicassette. C’era il lato A, quello fino a 14 anni, la sua vita a Carloforte prima della partenza per Genova. E poi c’era il lato B, che andava da quel momento in poi. Si domandò se magari ci fosse anche un lato C, il ritorno a Carloforte, l’autunno precedente. Oppure un immaginario demiurgo aveva rigirato il disco sul lato A e lui era tornato a vivere in quella dimensione spazio-temporale che gli sembrava lontanissima?”

© Erika Carta

Spostare la luna dall’orbita

Spostare la luna dall’orbita


Approcciarsi a un libro scritto da Andrea Marcolongo, non è mai cosa scontata.

L’unica certezza risiede nel fatto che le sue parole, colpiranno a fondo. Ancora una volta. 

La sorpresa sta nello scoprire come.

Spostare la luna dall’orbita, “così l’archeologo Edward Daniel Clarke descrisse lo sgomento dei greci, che assistevano terrorizzati all’operato degli inglesi, certi che prima o poi l’anima della terra ellenica si sarebbe vendicata”.

Un titolo quanto mai azzeccato anche per la storia che ci racconta questa volta l’autrice.

Vorrei correggermi, preferendo il plurale: le storie. Ma non sono sicura fino in fondo che sia così.

Perché mi è parso che Andrea Marcolongo, in questo romanzo più che mai, ci parli a un’unica grande voce, che è la sua ma anche quella di cielo e terra della Grecia. Della Francia, dell’Inghilterra, dell’Africa. 

Del sottilissimo confine tra carnefice e vittima.

Di vuoti. 

“Siamo nostalgie”.

Come non rispecchiarsi. Nell’una e nell’altra cosa.

Andrea Marcolongo non si limita a narrare la storia o la sua storia.

Con maestria tesse una trama impeccabile fatta di entrambe.

Ci racconta di Lord Elgin, nobile e diplomatico britannico, famoso per aver stuprato e smembrato il Partenone ad Atene, e trafugato i marmi di Fidia, trasportandoli a Londra.

Lord Elgin che oltre a questo è stato marito, amico, padre, uomo.

L’autrice fa suo e anche nostro il ruolo di ladro, la sindrome dell’impostore e infine, inevitabile, il riconoscimento e l’accettazione di un bisogno.

Sotteso e pulsante come pochi, quello di valere, di essere riconosciuti, di sentirsi dire Bravi.

Se lo chiede, Andrea, cosa sia l’autostima. Se il valore risieda dentro o fuori.

Parla del mondo classico, quello della Grecia a cui tutti dobbiamo la vita.

-Il concetto di “classico” è quanto mai immateriale, è quasi il respiro del mondo che oggi abitiamo. Come l’atmosfera, il classico anima l’aria nella quale si formano i nostri pensieri, di cui l’antico è l’incontaminato ossigeno.-

E quello dei genitori, a cui ognuno deve la propria. 

Non senza giudizio autocritico, attraversa a ritroso il suo viaggio dentro la vita, stando ferma in una notte chiara di maggio al Museo dell’Acropoli di Atene.

Un privilegio di cui ci ha reso dono, con queste pagine.

Rifiuto, rabbia, distacco.

Fuga.

“Ma questa storia non è finita per sempre come sta finendo la mia notte al Museo dell’Acropoli. Molte pagine sono ancora da scrivere, quelle della cura, del risarcimento, della soluzione. Forse anche della restituzione.

Il tempo presente è il foglio bianco della storia futura della Grecia. La mano e l’anima che la scriveranno sono le nostre.”

Vale anche per noi. 

© Erika Carta


Effetto Fiera

Effetto Fiera


Aprile volge al termine e fuori, all’ora del crepuscolo, c’è un odore buonissimo, di stelle e cielo blu. Sa di terra che si risveglia; la macchia mediterranea esplode, profumando l’aria. 

È come se tutto raccogliesse l’energia preparando le scorte per quando ne servirà di più. In un ciclo eterno che prende, accumula e restituisce. 

Ed è quello che è successo anche a noi. A noi di Argonautilus, nei giorni appena trascorsi.

La Fiera del libro di Iglesias è sempre inizio e fine insieme. È lo spazio dove il tempo si concentra e si dilata e proprio quando, a ragione, dovremmo essere allo stremo delle forze, inspiegabilmente rinvigoriamo.

Una cosa bella, così bella, si porta dentro la nostalgia del passato quando ancora è presente. È tangibile.

Ma è vero anche che il futuro immediatamente prossimo sarà scandito da quella stessa scia di vita.

Immagini la piazza ancora piena e mentre passeggi realmente tra le vie, una mattina qualunque, ti sembra di incontrare un ospite che si ferma per fare colazione.

Effetto ottico. O effetto fiera?

Un sorriso scoppia vivido senza preavviso come dentro una fotografia, un abbraccio in bianco e nero. 

Aspetti che qualcuno ti chieda: -com’è andata?- così hai modo di raccontarlo. E vorresti parlarne all’infinito, senza smettere mai, per vedere la magia che si muove ancora e ancora davanti agli occhi, nel suono delle parole.

Poi arriva un momento in cui le voci cominciano ad affievolire e tutto assume i contorni sbiaditi di una cartolina, ancora da spedire.

Non c’è modo di rivivere nel quotidiano quello che è appena stato. È passato. Ed è giusto così.

Questa consapevolezza fa sì che il suo valore e la bellezza si conservino intatti. 

La Fiera del libro di Iglesias è come un domino al contrario. Una tessera si è sollevata otto anni fa, e ne ha spinto un’altra e un’altra ancora, una dopo l’altra… non senza fatica.

E questa edizione, mi è parsa più che mai ancorata al presente, come solo il presente sa fare: con addosso quello che è successo prima e in germe quello che verrà dopo. 

Un grande, unico discorso che abbraccia chi siamo e ciò a cui siamo destinati.

Il viaggio percorso e quello che resta da tracciare, nelle nostre mappe. 

© Erika Carta

La mappa dell’Argonauta

La mappa dell’Argonauta

Cos’è una mappa?

La prima cosa che mi viene in mente, per associazione di pensiero è il tesoro.

Considerando che MAPPE è il tema di questa nuova edizione della Fiera del libro di Argonautilus, non ci discostiamo tanto.

Uno scrigno aperto otto anni fa che, illuminato con costanza, continua a spandere i suoi bagliori tutt’intorno.

MAPPE: tema che nasce dalle idee che hanno circolato per le trame della Rete Pym.

Fiera del libro di Iglesias, Elba Book Festival, Festival Giallo Garda, Officine Worth.

Rete come culla e insieme trampolino.

Immagino un filo arcobaleno che unisce la Sardegna all’isola d’Elba, a Garda ma anche alla Sicilia, a Roma e Barcellona, alla Toscana. E ancora, a Milano, Torino, all’Africa.

Che lascia il segno dentro ogni ospite, maestra, bambino, albergatore, libraia, bibliotecario, negoziante, lettrice, danzatore.

Dentro ogni persona che guarda, ascolta, partecipa, condivide. E così, lo trasporta di nuovo fuori, questo filo arcobaleno.

Se penso mappa, penso viaggio.

E io che son solita raccogliere le emozioni alla fine, quando ogni anno la Fiera volge al termine… e a renderle parole immediatamente dopo, questa volta sono stata, appunto, illuminata da un’altra idea.

Chi ci segue sta scoprendo giorno per giorno nuove mete di interesse da contrassegnare: ospiti, luoghi, eventi, laboratori, libri. 

Ma c’è una mappa nascosta nelle retrovie, fatta di persone, ansie e rituali. 

Una mappa a chilometro zero, costruita con il tempo e che  negli anni ha reso omaggio alla padrona della festa, la Terra. 

Che si è posta domande sulla verità e ha provato a rispondere con tutte le possibili parole che creano mondi.

Che quando ha sentito profumo di felicità, ci ha fatto caso, meravigliandosi per questo e per tutto il bello che è venuto e verrà.

In esclusiva, da oggi potrete consultarla per comprendere un poco cosa si muove nell’ombra.

Tutto ciò che dovrete fare per far sì che si riveli, è dire: 

“Giuro solennemente di non avere buone intenzioni.”

LA MAPPA DELL’ARGONAUTA.

Vi basti sapere che: 

*Quando uno comincia a perdere la voce e l’altra soffre il mal di schiena, ma nonostante tutto questo ridono, la Fiera è dietro l’angolo.

*Quando cominciano a evocare lo spirito guida che risponde sicura, la Fiera è dietro l’angolo.

*Quando i confini geografici si annullano anche prima che scompaiano davvero, e salpano tutti sulla stessa nave Argo, la Fiera è dietro l’angolo. 

*Quando uno prepara gli obiettivi, non quelli da raggiungere ma quelli con cui raggiungere e immortalare ogni cosa, la Fiera è dietro l’angolo.

*Quando una aggiunge ore alla giornata da mamma e prof, la Fiera è dietro l’angolo.

*Quando si iniziano a lucidare le magliette da supereroi, ad azionare i superpoteri, a parlare di sedie e scherzi, a risolvere più problemi di quanti se ne possano creare, gli ARGOVENGER sono dietro l’angolo.

Pronti ad accogliervi, guidarvi e camminare al vostro fianco, dal 22 al 25 Aprile, a Iglesias.

Allora, svoltiamo tutti dietro quest’angolo, che la Fiera del libro VIII Edizione ci aspetta, per scrivere, disegnare, danzare e sognare insieme nuove MAPPE.

© Erika Carta

Notturno francese

Notturno francese

Con la mente scevra da qualunque  informazione preliminare mi accingo a leggere l’ultimo romanzo dell’autore Fabio Stassi, che dal 22 al 25 Aprile sarà nostro ospite alla Fiera del libro di Argonautilus, a Iglesias.

Notturno francese, edito da Sellerio, che fa delle sue pagine un profumo buonissimo, come di libreria antica, di saggezza.

Non saprei dirti se era stato per la luce che aveva Roma, quel giorno, o per l’abitudine di andarmene in giro da solo, senza una direzione precisa e niente da sbrigare, o per via di tutta la gente che attraversava la stazione all’ora di pranzo e che invitava a perdersi tra la folla e a non essere trovati.

Ok. Sta parlando con me. Proprio con me, direttamente con me.

Fabio Stassi, o meglio… Vince Corso, il suo protagonista, sta cominciando a raccontarmi una storia. 

Mi metto comoda, nel senso più ampio di disposizione d’animo.

“Roma” “luce” “perdersi tra la folla e non essere trovati.”

E io, sono già, completamente assorta.

Sono bastate davvero pochissime righe. Sei, per l’esattezza.

Biblioterapeuta di professione, Vince Corso sale sul treno che da Roma dovrebbe portarlo a Napoli, da Feng, la sua compagna, per un weekend romantico fuori porta.

Ma il destino, gioca beffardo. E quando succede, lo fa per bene, con un intreccio di elementi che se legati ai libri, assumono un’aura magica senza eguali. 

La storia di Xavier a Bombay, tra le pagine del “Notturno indiano” di Antonio Tabucchi, che Vince ha scelto di portare con sé; Saverio, compagno di viaggio misterioso e quasi mistico. 

Un treno sbagliato, che invece va a Milano. E da lì a Genova.

Ma davvero, c’è un errore? 

Il resto della storia è l’ultimo filo di voce di una madre, i ricordi d’infanzia, le cartoline spedite senza nome. 

L’idea che in una precisa sera di tanti anni prima, la pioggia fosse il tempo esatto.

La Costa Azzurra e i suoi hotel.

Il mare, vivo e prepotente.

I libri dal dorso blu.

Il resto della storia è il viaggio, inteso come ricerca.

“In questa strana città non ero venuto per cercare, ma solo per essere trovato.”

Se l’intento meraviglioso di Fabio Stassi è essere un po’ biblioterapeuta anche lui, come il  suo Vince Corso, saprà bene che una storia come questa è in grado di far impazzire di fermento milioni di lettori già di loro matti, come me. 

Titoli di libri che scorrono sui treni, tra i binari delle stazioni ferroviarie, si fermano sopra il comodino di una stanza d’hotel, attraversano il tempo.

Incastonati come gioielli.

E saprà anche che un lettore o una lettrice aggiungono sempre qualcosa alla storia che diventa proprio così, condivisa.

Allora mi capirà se gli rivelo che in una pagina precisa mi è parso di cadere tra le righe di “Tenera è la notte” del citato Fitzgerald.

È stato solo un momento ma quella sensazione di intensità non mi ha lasciata più.

Eccolo, un altro libro da amare. Questo Notturno francese.

Il cuore di chi legge è immenso, ha più spazio di una libreria che traballa.

Ci sarà sempre posto per una nuova storia, per le parole che colpiscono e restano.

Come puntine su una mappa, che tracciano i luoghi di un viaggio destinato a divenire in eterno.

©Erika Carta

Le streghe

Le streghe

Sono sicuro che, leggendo la mia storia, strillerete di paura. Pazienza. Bisogna pur dire le cose come stanno.

La bambina lettrice che è in me sta scalpitando.

La vedo seduta, stringere uno dei suoi libri preferiti, “Le streghe” di Roald Dahl, e sbattere i piedi.

No no e no.

Ed è da lei che vi farò chiedere: ma cosa state combinando? 

Perché me la ricordo molto consapevole, quella bambina che assimilava con purezza i messaggi in fondo ai libri. E li comprendeva, poi.

Proprio grazie a quella magia, alle parole che  già leggeva e già condivideva, aveva ben chiaro cosa fosse giusto e cosa sbagliato fuori dai libri. 

Certo, la fantasia poi faceva il suo beato corso, come per esempio guardare il viso di una donna e cercare di capire se avesse  “le narici un po’ più grandi del normale, con il bordo roseo e leggermente incurvato, come quello di certe conchiglie”.

Al tempo, credo di averla individuata una strega. E tutt’oggi, sono abbastanza sicura di non essermi mai sbagliata.

Mi chiedo quanto ancora potrà allargarsi il baratro in cui ci siamo gettati a un certo punto della nostra esistenza in società. 

Brulicanti in questo buio tondo, i passi meccanici, gli occhi chiusi. A far finta di spiegare le cose e invece coprirle sotto montagne di perbenismo nocivo.

Un po’ del senso critico che appunto mi si è formato tempo addietro, mi ha fatto domandare se siamo noi a esser cresciuti sbagliati e ora sbagliamo a indignarci così tanto.

No.

Perché i bambini, anche quelli di oggi, le cose brutte le vedono come le vedevamo noi, insieme a quelle belle. 

E cancellarle dai libri li renderà soltanto più isolati e indifesi. Senza un riscontro, senza parole non tanto per dire, quanto per capire.

Senza confronto, instradati in una via come se fosse facilmente percorribile, come se fosse l’unica possibile.

Magari.

Già, la nostra generazione è alle prese con un carosello di disillusioni che la metà basta, non possiamo accettare che ci venga estirpata pure la cultura che ha concorso a definirci.

Come glielo raccontiamo se no, ai “prossimi grandi” chi siamo stati, perché ora siamo così e che ci impegneremo, insieme a loro, a divenire?

Con quali parole se ce le togliete? 

Tesoro mio”, disse infine la nonna ”sei sicuro che non ti dispiace essere un topo per tutto il resto della tua vita?”
“Sicurissimo” dissi. ”Non importa chi sei né che aspetto hai. Basta che qualcuno ti ami.

©Erika Carta

Don Chisciotte in Sicilia

Don Chisciotte in Sicilia

Ho la ferma convinzione che i libri comunichino tra loro, senza che noi lo sappiamo.

Che prendano vita, fuori dagli occhi, tessendo collegamenti in testa, sulle linee delle nostre mani. 

Come può la vita allegramente dissipata e profondamente scorretta di Barney Panofsky di cui si è letto per la prima volta nel 1997 grazie all’autore canadese Mordecai Richler, infiltrarsi tra le righe di un “Don Chisciotte in Sicilia” venuto fuori nel luglio 2022 dalla penna di Roberto Mandracchia, scrittore di Agrigento?

Non lo so. Eppure ho ritrovato uno nell’altro e sono sicura che l’unica risposta, sta nell’amore. 

Perché io, dei libri m’innamoro.

E se le 484 pagine de “La versione di Barney” le ho amate molto lentamente, sbocconcellando pagina per pagina senza fretta, le 215 del “Don Chisciotte in Sicilia” non ricordo nemmeno di averle iniziate che già le ho finite. 

Travolta da un ritmo incalzante e ironico, trascinata in una storia surreale che a volte, a finirci dentro, si capiscono tante più cose di quella realtà che troppo spesso ci appare incomprensibile.

Lillo Vasile, professore di italiano in pensione e vedovo, sprofonda proprio lì, dalla sua poltrona, dentro le vicende dei gialli di Andrea Camilleri, per fuggire una quotidianità troppo grigia, sempre uguale.

Mi è sembrato di vederli, lui e i suoi vecchi amici, che si incontrano su una panchina, con badanti a seguito, nelle calde mattine dal profumo di Sicilia.

E ha fregato pure me, quel luccichio nei suoi occhi quando alla targa del loro paese hanno aggiunto il nome Vigata e lui è improvvisamente diventato… il commissario Montalbano. 

Roberto Mandracchia ha questa idea geniale di attingere alle radici della sua terra, alle storie del Maestro e di far diventare il suo protagonista un Don Chisciotte siciliano accompagnato dal fido Sancho Panza, che qui è “l’africano”, “Ousmane” o “Fazio” per l’occasione. 

E lo fa con una tale tenerezza verso i personaggi che è impossibile non rimanere affascinati.

Intrighi, equivoci, dialoghi spassosi che tengono compagnia dalla prima all’ultima pagina.

E insieme, porta avanti la sottile denuncia che è propria dello stesso Camilleri, di Sciascia, a cura di una terra così piena di sole, bellezza e intelletto che è la Sicilia. 

©Erika Carta