Uccidiamo lo zio

Uccidiamo lo zio

“Una certa alchimia propria all’isola, li aveva trasformati in una coppia di bambini reali, di bambini magici”. 

Trovo sempre incredibili e, forse, i più ben riusciti, quei libri che partono sotto classificazione di un genere e che poi dalla prima all’ultima pagina prendono una strada diversa e contorta, senza che il lettore se ne renda davvero conto. 

È questa l’impressione che mi ha suscitato “Uccidiamo lo zio” di Rohan O’Grady.

Il titolo la dice lunga. 

Sia ben chiaro: ogni riga è impregnata di “black humor”, sembra un “giallo” alla vecchia maniera. Ma non soltanto. 

Tutto il romanzo, nel complesso, è come una vacanza estiva, pausa dall’inverno, una bolla dove si intessono rapporti sempre più fitti al ritmo tra il calar del sole e il sorgere d’ogni nuova alba.

Dove parlare di bugie, violenza psichica, ricatti morali e morte non è poi così tragico.

Strano vero?

Ma questo è l’effetto. 

Perché i protagonisti sono due marmocchi, Barnaby Gaunt e Christie Mcnab che per motivi diversi giungono su un’isola tranquilla, pacata e ordinata, dove non succede mai niente, come in tutte le isole, finché non arriva qualcuno a smuovere le acque, a togliere le  maschere, a mescolare le carte nel mazzo.

Eppure è la loro naturalezza bambina a rendere tutto così scorrevole e accettabile. Perfino quando si tratta di commettere un omicidio premeditato!

Il nemico? Uno zio cattivo che per primo e con una ferocia subdola e inaudita mira a eliminare l’ultimo ostacolo che lo divide da una cospicua eredità. 

La penna di O’Grady sviscera però nella quotidianità del racconto, tantissime sfaccettature della mente umana(e non solo), con particolare attenzione ai rapporti tra adulti e bambini, troppo spesso flebili voci mal interpretate, non udite o meglio… non ascoltate. 

Parrebbe un ritmo lento, sonnacchioso, invece ci si ritrova travolti da un’inspiegabile allegria e nello stesso tempo dalla difficoltà di interrompere la lettura, come spiati di continuo da un paio d’occhi sinistri. 

Divertente e magico, “Uccidiamo lo zio” è un romanzo del 1963. Rohan O’Grady è in realtà June Margaret O’Grady Skinner, scrittrice sottovalutata che nel 2010 prende nuova vita con la ristampa del romanzo da parte della casa editrice Bloomsbury e che a detta di Donna Tartt, era già allora “molto in anticipo sui tempi”.

Pubblicato per la prima volta in Italia, grazie alla WOM, (acronimo di Word Of Mouth) giovanissima casa editrice che incappa accuratamente su gioielli letterari e che, a parer mio, rende giustizia alla bellezza. Sia essa delle immagini, delle parole scritte o raccontate a voce. Dell’interazione.

E che a una velocità disarmante ha già piantato radici nel cuore di librai, lettori e sostenitori della cultura. Quelli pazzi.

Quelli che…

“stanno spesso in un cantuccio, all’ombra della propria lampada, assorti nel silenzio e in ascolto della cantilena della propria lettura, mentre fuori, la classe dei mercanti e dei guerrieri, degli arrivisti e dei capibanda, degli strilloni e degli arruffapopoli, fabbricatori di best-seller, si scannano e si divorano gli uni con gli altri, mentre l’ombra del tempo è sospesa da un punto e a capo”.

Da https://www.womedizioni.it/la-casa-editrice/

Erika Carta

Connessioni2021 “Geni nell’ombra”

23 Luglio 2021, ore 21:30. Parco S’Olivariu, Gonnesa

Milly Barba e Debora Serra – “Geni nell’ombra” Storie di grandi menti a cui è stata soffiata l’idea (Codice Edizioni). Dialoga con le autrici Francesca Carboni.
Con la partecipazione di Storytelling Libreria Sala da Tè

L’evento è GRATUITO. La prenotazione è obbligatoria. Info all’indirizzo mail: argonautiluslab@gmail.com

Programma Connessioni, Gonnesa 2021

Tutte le date:

23 Luglio 2021, ore 21:30 – Parco S’Olivariu.
Milly Barba e Debora Serra. “Geni nell’ombra – Storie di grandi menti a cui è stata rubata l’idea” (Codice Edizioni)

30 Luglio 2021, ore 21:30 – Villaggio Normann. Francesco Abate. “I delitti della salina” (Einaudi) e “Storie barocche” (PIEMME)

6 Agosto 2021, ore 21:30 – Nuraghe Seruci. Piergiorgio Pulixi. “Un colpo al cuore” (Rizzoli)

10 Agosto 2021, ore 21:30 – Nuraghe Seruci.
Massimo Carlotto. “E verrà un altro inverno” (Rizzoli)

5 Settembre 2021, ore 21:30 Parco S’Olivariu.
Wu Ming 1. “La Q di Qomplotto, Qanon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema” (Edizioni Alegre)

Tutti gli eventi sono GRATUITI e con prenotazione obbligatoria.
Per info: argonautiluslab@gmail.com

Tre gocce d’acqua

Tre gocce d’acqua

“È questo che fanno gli scrittori, interpretano le crepe degli altri, frugano nei loro nascondigli, anche senza conoscerli. Anche quando se li inventano”. 

Ho letto il libro di Valentina D’Urbano in spiaggia, con la mia amica impegnata in un’altra lettura. Tante volte ci teniamo questa compagnia silenziosa.

A un certo punto mi ha parlato. La sua voce mi è arrivata da lontanissimo, concretizzandosi solo nelle ultime sillabe. Ho sollevato gli occhi dal libro, mi sono guardata intorno e ho visto lei, la sabbia, l’acqua salata, Pan di Zucchero.

Mi son resa conto di non essere lì, senza sapere più da quanto tempo, persa com’ero nel corridoio di una casa a Roma con Pietro, Celeste e Nadir.

Questo è quello che fa Valentina D’Urbano.

Ti prende, letteralmente. Ti porta via da ovunque tu sia, ti risucchia nelle pagine, invischia ogni parte di te alle sue parole, ti fruga dentro, rimestando le certezze dei valori che vai costruendo, continuamente.

Due famiglie. Generatrici, contenitrici e sfondo fuori fuoco. Tre figli. Tre fratelli. Tre persone. 

Tre gocce d’acqua a formare un’unica pozza.
Amore. Senza articoli davanti, senza etichette. 

Che di questo si tratta. 

Grande quanto una villa estiva con piscina, vissuto, con la ruggine alle ringhiere.
Aggiustato. 

Potente come un ideale, una ricerca, lo studio, un viaggio in Siria.

Ruvido, in bilico e silenzioso, ma sempre lì.

Pietro: bello, il fulcro di incontro. Unisce e divide. Intero, nonostante tutto. 

Celeste, che riflette negli altri le crepe sue. Più fragile dentro che fuori, nelle sue ossa di vetro. Riccio di mare.

Nadir, brutto e smilzo, che attraversa la vita senza spezzarsi, trascinando con sé chiunque incroci il suo cammino. Nadir, che aspetta. “Amore assoluto”.

La penna di Valentina D’Urbano è un “rotolare di pietre” e i suoi personaggi vivono una vita che potrebbe essere una qualunque ma tutti, tutti, hanno dentro una bestia. E chi non ce l’ha? Diverse, certo, con ritmi sonno/veglia, indipendenti da noi. 

Ma è sempre un riconoscersi a specchio, nelle sue parole dure, secche, affilate e così piene. 

Nelle sue persone, in tutte.

In Pietro, che con la sua saggezza delicata ci consiglia di prendere una posizione, di parlare.

In Celeste che per tanto, troppo tempo, non sa dire, non riesce a mettere in parole quello che sente, dandolo in pasto alla sua bestia.

E in Nadir, che parla sempre, pur senza dire nulla.

Come al solito, a fine lettura (difficile da chiamare “fine”, che era appena cominciata) il cuore rimane graffiato ma di nuovo più ricco.

Di quell’unione, che diventa familiare.

“I legami di sangue sono affilati, recidono qualsiasi altra cosa”.

Di gratitudine. 

“Sai da te quanto t’ho amata”.

Erika Carta

Un cuore logorroico
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Un cuore logorroico


Dove stanno le parole? 

Ne è piena la mente. 

Ho l’immagine di stringhe di lettere che circolano e si incrociano di continuo, all’altezza delle tempie.

Nella mano, che guida la penna a portarle via, per depositarle su un foglio. 

Ma posso dire, con certezza quasi assoluta, che a farle nascere ci pensi il cuore. 

Tanto più se è un “Cuore logorroico” come quello di Stefania Congiu, che (finalmente) ci regala la sua seconda raccolta di poesie.

Sono altrettanto sicura che nel momento in cui lo leggerete, ci sentirete anche il vostro di cuore, dentro. In questo spazio condiviso e paradossalmente silenzioso come soltanto un libro riesce a essere. 

Molto spesso si suole fare confronti tra i libri di uno scrittore. E così, immancabilmente, penso a “L’elefante tra gli ombrellini” dove Stefania scattava parole, scrivendo fotografie così nitide che sembrava si animassero davanti agli occhi.

Ora abbiamo questo cuore, che ha come cambiato prospettiva.  

Legato profondamente alla natura della nostra Terra, alla lentezza, a chi… per forza di cose ha dovuto osservare molto più dentro, che fuori. 

Così, è parso a me. 

Ma si sa, le parole, soprattutto quelle in versi, hanno l’enorme potere di uniformare o ramificare i pensieri, in un terreno da spartire tra chi scrive e chi legge. 

Io, sono grata a Stefania per aver trovato il coraggio, una seconda volta, di donare a noi le parole del suo cuore logorroico. 

Spero tanto lo sia anche lei, per essere riuscita a lasciarle andare.

Di chi scrive

“Si sentono arrivare 

come onde improvvise, 

non hanno barriera.

Si prova a scansarle

ad allontanarsi 

a non ascoltare.

Delle volte sono leggere, 

altre pesanti.

Non si lasceranno mettere a tacere, 

devono avere parole.

Serve uno spazio vuoto, 

spesso servono silenzi 

per i turbamenti di chi scrive 

schiavo di emozioni e impressioni 

che anche solo un altro 

a leggere possa riconoscere”.

Un cuore logorroico

Stefania Congiu

Erika Carta

Breve storia del segnalibro

Breve storia del segnalibro

Nel giorno internazionale della poesia, apro un piccolo libro, che è un saggio. 

Nemmeno a farlo apposta, dalle pagine mi scivola tra le dita un rettangolo di cartoncino con le parole:

Ponemi come signacolo. O tra le cose inutili, che pur sono belle”. 

Carmen Verde.

Chiaramente è amore a prima vista. 

Ma lo era a prescindere. Lo sapevo.

Ci sono i segnalibri e poi c’è un libro, che parla di segnalibri. 

Se non è poesia questa, ditemi voi cosa lo è.

Breve storia del segnalibro” scritto da Massimo Gatta, edito dalla Graphe.it per la collana –Parva scintilla magnum saepe excitat incendium– che immette nel mondo gocce di saggezza a rilascio prolungato. 

Sapete, con il tempo, il mio amore per “il libro” si è evoluto in una maniera tale da attaccarmi visceralmente anche a tutto ciò che lo circonda e che per questo emana bellezza. 

Come si può non considerare degno di nota un oggetto che ci aiuta a manipolare il tempo? A fermarlo proprio in quella pagina, mentre una parte di noi deve tornare per forza fuori, e ritrovarlo esattamente lì, ad attenderci nello spazio dove lo avevamo lasciato insieme alle parole. 

L’uso di segnare in qualche modo la pagina, marcandola, è consustanziale alla pratica del leggere e questo fin dall’alba della civiltà dell’uomo[…] Un elemento filosofico, il segnalibro, prima ancora che materiale”. 

E così dalle manicule degli antichi manoscritti, passando per materiali come cuoio, avorio, seta, metallo e carta, Massimo Gatta ci offre un interessantissimo percorso che ha per protagonisti proprio loro: i segnalibri. 

Arricchito da iconografie nelle ultime pagine, possiamo leggere in tutto il libro, aneddoti che spaziano dal mondo dell’arte alla letteratura, dall’editoria alla pubblicità. 

Cito, per appartenenza terrena, la rassegna “Il segno nel libro” “nella quale venne richiesto a cento artisti sardi di realizzare ciascuno tre segnalibri, che furono poi esposti in una mostra […] Organizzata a Sassari, presso il Palazzo della Frumentaria (31 marzo – 6 maggio 2006)”.

Infine, e ci ho pensato soltanto leggendo questo saggio, trovo spettacolare che sia una parte del nostro stesso corpo a travestirsi spesso da segnalibro: l’indice della mano. 

Ma siccome, e aggiungo purtroppo, non possiamo fare del libro un’appendice di noi stessi, usiamoli questi oggetti magici!! 

L’unica cosa che i libri sopportano fra le loro pagine è il segnalibro[…] Il segnalibro è bello perché con lui si vince sempre […] col segnalibro non si arretra mai, voi libri non si perde, mal che vada si fa pari”.

Maurizio Bettini in Pippa Passes.

Breve storia del segnalibroMassimo Gatta

Graphe.it

©Erika Carta

Connessioni

Connessioni


“Ma anche tu stai sorridendo dietro la mascherina?”

È quello che mi chiede Sara, mentre ci scattano una fotografia alla nostra “postazione di controllo”.

Eccome, se rido. Credetemi, si vede.

Anche dietro gli occhiali mezzo appannati.

Difficilmente si può mentire con lo sguardo.

“Connessioni”. 

Non trovo parola più giusta per descrivere l’esatta sensazione che da mesi, ormai, avevo perduto nel marasma della diffidenza, della paura, dell’oblio.

Connessioni, Festival delle idee Gonnesa 2020 è la rassegna estiva che rientra nel programma “Luci d’estate” per il comune, partner della Fiera del Libro di Iglesias, Gonnesa. 

E deriva dall’antico toponimo “Conesium” che stava ad indicare un crocevia di incontri, scambi e interazioni.

Ecco. 

Quello che è successo ieri sera, 10 luglio, è stato questo.

Al Nuraghe di Seruci, luogo pregno di storia con il sole che, indisturbato, tramontava dietro gli alberi piegati dal maestrale.

Il primo dei cinque incontri a cura di Argonautilus che si snoderanno tra il Nuraghe e il Villaggio Norman, ha visto protagonisti alcuni degli autori della raccolta, fresca di stampa, “Giallo Sardo”, edito da Piemme Edizioni.

Un insieme di racconti, come lo si può vedere, oppure un romanzo corale in cui a emergere è un unico filo conduttore: l’appartenenza a una terra dicotomica. Forte, aspra, docile e immensamente bella. 

La Sardegna. 

La sua aria salata, la natura selvaggia dell’entroterra.

Il bene e il male. 

Variegati i territori, come le dieci storie presenti nel libro.

Da qualche anno ormai, per me, leggere un libro non si ferma soltanto a… leggere un libro. 

In tantissime occasioni, grazie all’Associazione Argonautilus, ho la possibilità di partecipare attivamente all’organizzazione di eventi come questo, che permettono di solcare le viscere di tutto ciò che sta all’interno. 

Come nascono le idee, il rapporto con le case editrici, le librerie, il contatto con il pubblico.

Lo scambio.

Che non si è mai arenato, a dire il vero, nemmeno nei mesi passati e fermi, che fanno fatica a scorrere via del tutto.

Sentirlo di nuovo vivo, pulsare insieme a questa terra, è però un’emozione che non può essere eguagliata.  

Il contenuto dell’evento in sé e la collaborazione di ogni soggetto presente ha reso reale e possibile questo incontro, in meraviglia e sicurezza. 

Binomio che ora, più che mai, è necessario perché si possa godere a pieno del bello.

Grazie. 

A Carlos Ruiz Zafón

A Carlos Ruiz Zafón

Non è semplice spiegare il legame che si crea tra un libro e il suo lettore. 

Chi parla questa lingua codificata, sa bene cosa intendo.

E immancabilmente, la persona che il libro l’ha scritto, entra di diritto in quella cerchia di amici stretti, strettissimi, che non c’è bisogno di essersi mai incontrati per aver speso insieme un tempo che non ha eguali.

Ecco perché, quando giri l’ultima pagina, senti che quell’amico ti mancherà da subito e che, allo stesso tempo rimarrà per sempre con te.

“Non so dire se dipese da queste riflessioni, dal caso o dal suo parente nobile, il destino, ma in quell’istante ebbi la certezza di aver trovato il libro che vi avrei adottato, o meglio, il libro che avrebbe adottato me. Sporgeva timidamente da un ripiano, rilegato in pelle color vino, col titolo impresso sul dorso a caratteri dorati. Accarezzai quelle parole con la punta delle dita e lessi in silenzio.

JULIÁN CARAX 

L’ombra del vento”.

È di pochi giorni fa la terribile notizia della prematura morte di Carlos Ruiz Zafón, lo scrittore spagnolo che ha portato tutti noi a camminare in una notte in cui “i lampioni delle ramblas impallidivano accompagnando il pigro risveglio della città, pronta a disfarsi della sua maschera di colori slavati”. 

L’uomo che ci ha fatto fermare “davanti a un grande portone di legno intagliato, annerito dal tempo e dall’umidità […] il cadavere di un palazzo, un mausoleo di echi e di ombre […] un tempio tenebroso, un labirinto di ballatoi con scaffali altissimi zeppi di libri, un enorme alveare percorso da tunnel, scalinate, piattaforme e impalcature: una gigantesca biblioteca dalla geometria impossibile”.

Il Cimitero dei Libri Dimenticati.

Mi vengono i brividi ogni volta che lo leggo, lo sento, ne parlo. Come fosse la prima volta, quando piena di meraviglia lo scoprivo tramite gli occhi di un quasi undicenne Daniel Sempere.

Davvero mi riesce complicato trovare parole per dire in quanta magia mi sia imbattuta, percorrendo queste pagine. 

E non si tratta solo di un libro che parla di libri o di storie avvincenti e misteri da svelare. 

Zafón è tanto di più.

In tutte le sue opere, ogni personaggio dismette tali abiti, diventando semplicemente una persona. Così ben caratterizzata, così umanamente sfaccettata, che è impossibile passare oltre. 

“Non sapevo ancora che, prima o poi, l’oceano del tempo ci restituisce i ricordi che vi seppelliamo. Quindici anni più tardi, mi è tornato alla mente quel giorno. Ho visto quel ragazzo girovagare nella bruma della stazione Francia e il nome di Marina si è infiammato di nuovo come una ferita recente. Tutti custodiamo un segreto chiuso a chiave nella soffitta dell’anima. Questo è il mio”. 

Come Marina, fiamma di luce in un paesaggio tetro e sinistro.

La smania di leggere fino all’ultima parola freme chiassosa eppure ogni vita raccontata lì dentro, ogni legame, ogni luogo, ti si attaccano addosso con lentezza, in profondità.

“Possedeva uno strano fascino che seduceva in modo lento ma inesorabile”.

Storie di coraggio, storie dove l’amore illumina costantemente il percorso e l’amicizia tiene in vita società segrete, anche dopo che si sciolgono, come la Chowbar Society.

“Lì eravamo cresciuti senz’altra famiglia che noi stessi e senza altri ricordi che le storie che ci raccontavamo intorno al fuoco a notte fonda, nel cortile della vecchia casa abbandonata che sorgeva all’angolo tra Cotton Street e Brabourne Road, un casermone in rovina che avevamo ribattezzati il Palazzo della Mezzanotte”.

I libri di Carlos Ruiz Zafón sono una scossa elettrica la prima volta che ti imbatti in loro. Scrigno di meraviglie a cui tornare infinite volte sentendosi come a casa di un amico fedele.

Le parole sopravvivono a ogni male del mondo, creando unioni profonde che vanno oltre i confini.

L’unico pensiero che si affaccia alla mia mente è questo, e te lo dedico, amico:

“Vivrai per sempre. Grazie.”


Breve storia della letteratura rosa

Breve storia della letteratura rosa

C’è stato un periodo, quand’ero più che adolescente ormai, in cui ogni sabato mattina mi recavo nella biblioteca della città, con mia zia, a fare incetta di libri per la settimana. 

Erano anni sospesi, in cui tutto poteva essere (o non essere, a onor del vero).

Sorelle gemelle di “Bridjet Jones” e con “I love shopping” di Sophie Kinsella, siamo entrate in un mondo di cui, poi, abbiamo cercato infinite repliche.

Sognare, attraversare ostacoli e imprevisti  con un pizzico di ironia a fior di labbra e arrivare al lieto fine con il cuoregonfio d’amore e speranza. Appagate dalle parole.

Ricordo una collana in particolare, la “Red Dress Ink”, di cuinessun titolo s’è fatto salvo dai miei avidi occhi.

E oggi, leggerne su “Breve storia della letteratura rosa”, mi ha fatto venire i brividi, di quelli che fanno riaffiorare ricordi di un tempo andato. 

Il libro, edito dalla casa editrice umbra, Graphe.it, fa partedella collana “Parva”, dedicata ai saggi brevi.

“Parva scintilla magnum saepe excitat incedium”.

“Una piccola scintilla è spesso causa di un grande incendio”.

Libri gioiello, così mi piace pensarli.

Soprattutto, per quanto mi riguarda, se si parla di letteratura.

Scintilla che, davvero, genera un incendio di sapere.

Così, Patrizia Violi, giornalista che si occupa di attualità, costume e psicologia, ci racconta tra le pagine il percorso di questa letteratura, a partire dal colore: il rosa. 

Tipicamente associato alle donne, é un colore rassicurante, che semplifica la realtà, lenendo un po’ di quella parte cinica e dolorosa della quotidianità.

Come un analgesico.

Il suo è un excursus che parte dal 1740, nel mondo di “Pamela, o la virtù premiata” (Samuel Richardson) per arrivare ai giorni nostri, con “After” (Anna Todd).

E nel mezzo, lo spaccato di una condizione, quella femminile, in perenne evoluzione che mai, si ferma ad accettarepassivamente le circostanze esterne, diventando così continua fonte di ispirazione per scrittrici e scrittori del genere. 

Che siano i tempi del patriarcato, del ventennio fascista o l’era del consumismo; che la critica continui a trovarsi in dissensocon il pubblico, “il rosa è duttile, non sparisce e si rigenera”, come scrive la Violi.

E d’altronde, altro non fa se non espletare il compito della letteratura, di qualunque colore sia e a chiunque sia rivolta: essere lente di ingrandimento sulla società, offrire un’altraprospettiva, una diversa angolazione, un nuovo modo di vedere le cose.

Con il tempo, il mio modo di leggere è cambiato, eppuretalvolta sento la necessità di tornarci, al rosa, o di cercarlo trale righe in qualunque libro o nelle immagini davanti alloschermo, in film e serie tv.

È un po’ come guardarsi allo specchio, riconoscersi e allostesso tempo cercare di sbirciare oltre.

Leggere questa breve storia è stato come fare un tuffonell’ottimismo, che di questi tempi se ne sente un gran bisogno.

Come scartare un cioccolatino e gustarlo in un solo boccone.

Squisito.

E con un retrogusto piccante:

“Good girls go to heaven, bad girls go everywhere”.

©Erika Carta