Tre gocce d’acqua

Tre gocce d’acqua

“È questo che fanno gli scrittori, interpretano le crepe degli altri, frugano nei loro nascondigli, anche senza conoscerli. Anche quando se li inventano”. 

Ho letto il libro di Valentina D’Urbano in spiaggia, con la mia amica impegnata in un’altra lettura. Tante volte ci teniamo questa compagnia silenziosa.

A un certo punto mi ha parlato. La sua voce mi è arrivata da lontanissimo, concretizzandosi solo nelle ultime sillabe. Ho sollevato gli occhi dal libro, mi sono guardata intorno e ho visto lei, la sabbia, l’acqua salata, Pan di Zucchero.

Mi son resa conto di non essere lì, senza sapere più da quanto tempo, persa com’ero nel corridoio di una casa a Roma con Pietro, Celeste e Nadir.

Questo è quello che fa Valentina D’Urbano.

Ti prende, letteralmente. Ti porta via da ovunque tu sia, ti risucchia nelle pagine, invischia ogni parte di te alle sue parole, ti fruga dentro, rimestando le certezze dei valori che vai costruendo, continuamente.

Due famiglie. Generatrici, contenitrici e sfondo fuori fuoco. Tre figli. Tre fratelli. Tre persone. 

Tre gocce d’acqua a formare un’unica pozza.
Amore. Senza articoli davanti, senza etichette. 

Che di questo si tratta. 

Grande quanto una villa estiva con piscina, vissuto, con la ruggine alle ringhiere.
Aggiustato. 

Potente come un ideale, una ricerca, lo studio, un viaggio in Siria.

Ruvido, in bilico e silenzioso, ma sempre lì.

Pietro: bello, il fulcro di incontro. Unisce e divide. Intero, nonostante tutto. 

Celeste, che riflette negli altri le crepe sue. Più fragile dentro che fuori, nelle sue ossa di vetro. Riccio di mare.

Nadir, brutto e smilzo, che attraversa la vita senza spezzarsi, trascinando con sé chiunque incroci il suo cammino. Nadir, che aspetta. “Amore assoluto”.

La penna di Valentina D’Urbano è un “rotolare di pietre” e i suoi personaggi vivono una vita che potrebbe essere una qualunque ma tutti, tutti, hanno dentro una bestia. E chi non ce l’ha? Diverse, certo, con ritmi sonno/veglia, indipendenti da noi. 

Ma è sempre un riconoscersi a specchio, nelle sue parole dure, secche, affilate e così piene. 

Nelle sue persone, in tutte.

In Pietro, che con la sua saggezza delicata ci consiglia di prendere una posizione, di parlare.

In Celeste che per tanto, troppo tempo, non sa dire, non riesce a mettere in parole quello che sente, dandolo in pasto alla sua bestia.

E in Nadir, che parla sempre, pur senza dire nulla.

Come al solito, a fine lettura (difficile da chiamare “fine”, che era appena cominciata) il cuore rimane graffiato ma di nuovo più ricco.

Di quell’unione, che diventa familiare.

“I legami di sangue sono affilati, recidono qualsiasi altra cosa”.

Di gratitudine. 

“Sai da te quanto t’ho amata”.

Erika Carta

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