Don Chisciotte in Sicilia

Don Chisciotte in Sicilia

Ho la ferma convinzione che i libri comunichino tra loro, senza che noi lo sappiamo.

Che prendano vita, fuori dagli occhi, tessendo collegamenti in testa, sulle linee delle nostre mani. 

Come può la vita allegramente dissipata e profondamente scorretta di Barney Panofsky di cui si è letto per la prima volta nel 1997 grazie all’autore canadese Mordecai Richler, infiltrarsi tra le righe di un “Don Chisciotte in Sicilia” venuto fuori nel luglio 2022 dalla penna di Roberto Mandracchia, scrittore di Agrigento?

Non lo so. Eppure ho ritrovato uno nell’altro e sono sicura che l’unica risposta, sta nell’amore. 

Perché io, dei libri m’innamoro.

E se le 484 pagine de “La versione di Barney” le ho amate molto lentamente, sbocconcellando pagina per pagina senza fretta, le 215 del “Don Chisciotte in Sicilia” non ricordo nemmeno di averle iniziate che già le ho finite. 

Travolta da un ritmo incalzante e ironico, trascinata in una storia surreale che a volte, a finirci dentro, si capiscono tante più cose di quella realtà che troppo spesso ci appare incomprensibile.

Lillo Vasile, professore di italiano in pensione e vedovo, sprofonda proprio lì, dalla sua poltrona, dentro le vicende dei gialli di Andrea Camilleri, per fuggire una quotidianità troppo grigia, sempre uguale.

Mi è sembrato di vederli, lui e i suoi vecchi amici, che si incontrano su una panchina, con badanti a seguito, nelle calde mattine dal profumo di Sicilia.

E ha fregato pure me, quel luccichio nei suoi occhi quando alla targa del loro paese hanno aggiunto il nome Vigata e lui è improvvisamente diventato… il commissario Montalbano. 

Roberto Mandracchia ha questa idea geniale di attingere alle radici della sua terra, alle storie del Maestro e di far diventare il suo protagonista un Don Chisciotte siciliano accompagnato dal fido Sancho Panza, che qui è “l’africano”, “Ousmane” o “Fazio” per l’occasione. 

E lo fa con una tale tenerezza verso i personaggi che è impossibile non rimanere affascinati.

Intrighi, equivoci, dialoghi spassosi che tengono compagnia dalla prima all’ultima pagina.

E insieme, porta avanti la sottile denuncia che è propria dello stesso Camilleri, di Sciascia, a cura di una terra così piena di sole, bellezza e intelletto che è la Sicilia. 

©Erika Carta

Controluce e azzurro di smalto.

Controluce e azzurro di smalto.

“Della Sardegna è facile amare il mare, i suoi colori: sono talmente potenti da non poterli ignorare. Quello che è difficile scoprire è la sua gente. I sardi parlano una lingua unica, sono orgogliosi e testardi, ironici e fatalisti, con un’innata cortesia che scalda il cuore. La loro storia antica ce l’hanno scavata dentro, come solchi di una montagna.”

Nel giugno del 2019 leggevo Flavia’s end, sprofondata nella mia seggiolina sulla sabbia e nella storia, imbastita da Claudia Aloisi.

Leggevo di Flavia, Luigi, Maria, Estelle e Marco. Leggevo di blu cobalto del mare mentre il mare mi teneva compagnia. 

Era stato come conoscere la mia terra per la prima volta, con i miei stessi occhi posati però  sulle strade, sulle pietre e sui tramonti con il filtro delle pagine scritte da Claudia.

Questo Natale ho scartato un dono che mi ha fatto brillare gli occhi di urgenza. 

Con i libri, succede molto spesso. Con quelli desiderati, anche di più.

Eccola, la sua amata baia: il mare sempre di un tono più intenso del cielo, i monti di Nebida, protesi sull’acqua; le case aggrappata alle rocce nel loro incerto equilibrio, la familiare sagoma della torretta di Porto Flavia, invisibile a tutti, tranne a chi sapeva dove guardare. E poi lui, il Pan di Zucchero: il maestoso faraglione di calcare bianco striato dall’erosione, che si ergeva dal mare con la sua forma irregolare ma inconfondibile. Quello era il panorama che scandiva il tempo a Nebida […]”

Controluce. Claudia Aloisi.

Incredibilmente, a pagina 48, ero già consapevole di cosa avrei detto o meglio, scritto, alla fine. 

Perché la sensazione è arrivata chiara e limpida lasciandomi certa che sarebbe perdurata fino all’ultima riga. 

È stato come tornare a casa, senza essere mai andata via, eccetto qualche meravigliosa incursione di mondo là fuori. 

Estelle Moreau, fotografa belga, si trova suo malgrado a ripercorrere i passi su quella terra che già una volta l’aveva accolta e sconvolta.

Tra i misteriosi eventi che collegano di nuovo passato e presente in un gioco di luci e ombre, il profumo salato dell’acqua di mare, il cielo “azzurro di smalto” rischiarato dal maestrale, e il gusto morbido di mandorle e arancia dei guefus, Estelle si interroga ancora una volta su cosa voglia davvero. Non è la sola a doverci fare i conti.

Domandarlo non è difficile.

Complicato è semmai trovare le risposte, nascoste in fondo a strati e strati di roccia. 

Controluce non racconta soltanto una storia avvincente. 

Ne racconta due: quella degli anni 20 del 1900 e quella degli anni 20 del 2000. 

Ne racconta molte di più.

Perché ogni personaggio è un po’ come Shreck spiega a Ciuchino nel primo film d’animazione che li vede protagonisti: strati! 

Le persone sono fatte di strati. Che siano più simili a cipolle o a torte, questo è tutto da scoprire. 

Ma fa sempre riflettere l’evidenza, che ogni tanto scordiamo, che luci e ombre possano convivere dentro un’unica anima. 

Quanto ai luoghi, l’urgenza di leggere si accompagna all’urgenza di andare a vederli.

Di nuovo, ancora e sempre, con quella suggestione in più che da i brividi. 

La fantasia, si mischia alla realtà nell’ultimo giorno dell’anno, un giorno di sole.

La presenza del passato, tangibile anche se assente. 

E basta un libro a evocare tutto questo.

A schiarire un po’ la vista, dopo che era stata abituata a parecchio buio.

La magia come risultato di un lungo lavoro di immaginazione, pazienza, fatica e passione.

Che meraviglia scrivere! E che meraviglia leggere! 

Ed emozionarsi sulla pelle, quando per uno strano effetto, sembra di scorgere qualcosa all’imboccatura di una galleria, controluce. 

© Erika Carta

La vergogna

La vergogna


Mi viene da dire “La conosco di vista” come si dice per una persona che si vede spesso, magari nella propria città, senza averci mai avuto a che fare.

Ecco, Annie Ernaux l’ho sempre vista tra gli scaffali della libreria, ne ho sentito parlare da una libraia appassionata, insieme ai suoi lettori e lettrici.

Qualche pagina condivisa, frasi, parole.

Di recentissimo è stata insignita del Premio Nobel per la Letteratura 2022.

Se questo è il motivo che ha spinto la mia curiosità a incrociare la sua strada, ben venga.

Ma so bene che nulla, coi libri, accade per caso. 

Il tempo, coi libri, assume la giusta dimensione che troppo spesso gli neghiamo. 

Mi si è presentata, in una di queste mattine soleggiate fuori e brumose dentro, con la copertina color vino e per titolo un’emozione: La vergogna. 

“L’aspetto peggiore della vergogna è che si crede di essere gli unici a provarla.”

Ho iniziato a leggerlo per strada, mentre camminavo.

Anche l’urgenza mi è familiare.

Annie racconta di una domenica di giugno in famiglia. Era il 1952. Un episodio che fa da spartiacque tra  l’innocenza bambina di prendere per unico tutto quello che la circonda e la realtà.

Nel suo caso macchiata dalla vergogna. 

Non soltanto la realtà di quel giorno ma anche di tutti quelli a venire. 

Ciò che mi ha sorpresa è il modo apparentemente distaccato che ha di narrare.

Nelle prime pagine racconta l’episodio. Lo scrive, lo ferma nero su bianco, così come è vivo nella sua mente. Un fatto.

Poi non ne parla più. 

Ma è dappertutto.

E quello che ha sotto pelle è tutta un’altra storia.

La si può leggere mentre descrive il posto in cui vive, le strade, gli abitanti. Gli altri.

Il bar-drogheria dove lavorano i genitori. Parla di loro. Racconta della scuola privata, di come era organizzata. Di fotografie, religione, di un viaggio.

“Quello che mi importa, invece, è ritrovare le parole attraverso le quali pensavo me stessa e il mondo circostante. Stabilire ciò che per me era normale e ciò che era inammissibile, persino in immaginabile. Ma la donna che sono nel ‘95 è incapace di ricollocarsi nella ragazzina del ‘52 che conosceva soltanto la sua cittadina, la sua famiglia, la sua scuola privata, e aveva a sua disposizione un vocabolario ridotto. E, davanti a lei, l’immensità del tempo da vivere. Non esiste un’autentica memoria di sé.”

Ed è incredibile come contestualizzando prenda le distanze e insieme le annulli.

Ogni pagina aperta è una ferita sanguinolenta; una lotta tra futuro e memoria. Ogni parola, un tentativo di cura.

In un libro di quell’anno, “La guerra del soldato Tamura”, Shohei Ooka scrive: 

“Forse tutto ciò è solo un’illusione, ma non posso mettere in dubbio quello che ho provato. Anche il ricordo è un’esperienza.”

Sopra a tutto c’è un aspetto che mi ha colpita, che arriva esattamente quando e dove deve arrivare. 

Non saprei spiegarlo meglio di lei, scrittrice, premio Nobel, ragazzina nel ‘52, donna nel ‘95.

Annie.

“Nulla può cambiare il fatto che le cose siano andate così, che io abbia provato ciò che ho provato, quella pesantezza, quella nullificazione. La vergogna è la verità ultima. È lei che unisce la ragazza del ‘52 alla donna che sta scrivendo.” 

© Erika Carta

Valerio Calzolaio ha letto per noi “Diabolik, dietro la maschera” di Aldo Dalla Vecchia

Valerio Calzolaio ha letto per noi “Diabolik, dietro la maschera” di Aldo Dalla Vecchia

Milano. Primi Sessanta. Le due colte sorelle Giussani, Angela (1922-1987) e Luciana (1928-2001) inventarono Diabolik in b/n, un protagonista ladro e assassino, eroe indimenticabile e perpetuo del fumetto nero, con immediato enorme successo. Già nel 1964 il produttore Dino De Laurentiis e il regista Mario Bava ne trassero un film, siamo nel 2022 e sono attesi i due sequel di quello uscito a dicembre 2021 a cura dei fratelli Manetti Bros. Il giornalista e autore televisivo Aldo Dalla Vecchia racconta nel completo saggio “Diabolik dietro la maschera” vita e miracoli del mitico criminale. Dalla nascita del nome (“C’era una volta una kappa”) all’archivio (“diaboliko”) scopriamo informazioni e particolari sulla prima casa editrice Astorina e le successive; sui caratteri, gli affetti, l’antagonista (alla pari) e i comprimari del personaggio; sulle sue evoluzioni e sull’evoluzione cartacea e multimediale; sui risvolti culturali e sui frequenti emuli. Esaurienti note, citazioni e bibliografia.

v.c.

Diabolik dietro la maschera.Indagine sul Re del Terrore

Aldo Dalla Vecchia

Prefazione di Gabriele Acerbo

Letteratura e Fumetti

Graphe Perugia

2022

Pag. 102 euro 9

Valerio Calzolaio

Valerio Calzolaio su “Breve storia del romanzo poliziesco” di Leonardo Sciascia

Valerio Calzolaio su “Breve storia del romanzo poliziesco” di Leonardo Sciascia

Pianeta umano, da millenni. Occidente, da quasi due secoli. “La principale ragione per cui un pubblico vastissimo, in ogni parte del mondo, legge (sarebbe dir meglio consuma) romanzi polizieschi (“gialli” in Italia, “neri” in Francia: dal colore della copertina che gli editori Mondadori e Gallimard hanno scelto nel momento in cui il poliziesco diventava un genere a sé) …” potrebbe essere trovata in una frase di Alain rintracciabile nel Sistema delle arti (Alain era lo pseudonimo del filosofo e giornalista francese Émile-Auguste Chartier, 1858-1951), oppure in riflessioni di Marx e Freud, sintetizzabili in breve. “Nei romanzi del genere sono impiegati senza precauzione – senza la precauzione, cioè, che è dell’arte – dei mezzi che con notevole approssimazione si possono definire di terrore: e l’effetto è fuga di pensieri, meditazione senza distacco. La lettura di un poliziesco è, nel senso più proprio della parola, passatempo: il tempo non più portatore di pensiero o di pensieri, non più scandito da condizioni e condizionamenti, è come sommerso in una fluida e opaca corrente emotiva …”. Questo è l’incipit del ragionamento di Leonarda Sciascia sul settimanale Epoca del 20 settembre 1975, proseguito nel numero successivo e ripubblicato come saggio di una raccolta di scritti del 1998 (se ne possono rintracciare un paio di versioni quasi identiche). Con tale premessa Sciascia individua già all’interno della Bibbia il primo racconto poliziesco, ingredienti identici a quelli a lui contemporanei, per un genere le cui origini più vicine e precise possono essere anche tecnicamente distinte in Edgar Poe. La traccia di ragionamento è stata ribadita da decine di autori, recensori e studiosi in centinaia di pezzi, più o meno giornalistici, solo aggiornando i termini.
Il siciliano europeo Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989) fu presto appassionato anche di letteratura di lingua angloamericana, avido lettore degli scrittori popolari e, tra essi, sia dei grandi del cosiddetto giallo classico di fine Ottocento e primi Novecento che degli autori della nuova scuola hard-boiled, a partire dal capostipite Dashiell Hammett, da cui poi il genere sarebbe divenuto anche noir per la carica di denuncia e di prefigurazione (propria anche di molti romanzi di Sciascia). L’autore è una lettura imprescindibile soprattutto per chi ama scrivere: si gode, si pensa e s’introietta pure uno stile chiaro e limpido. Nel 2021 sono stati numerosi i volumi, le mostre e gli eventi che gli sono stati dedicati in tutt’Italia per il centenario della nascita. Fra di essi possiamo considerare la riedizione di questo breve significativo testo giornalistico di storia della letteratura. Lo schema di ragionamento era un buon cliché già cinquant’anni fa, pur argomentato in modo colto e sincero: il poliziesco come genere minore di puro intrattenimento. Valeva e vale spesso come premessa alla disanima personale di cosa sia alta letteratura di pensiero, nel caso (non solo) di Sciascia come esperienza di scardinamento del genere e testimonianza di un “altro” modo di scrivere polizieschi. In realtà, la dialettica risale indietro (più o meno ai tempi della Bibbia) e merita di essere rivalutata a partire da Sciascia, come opportunamente fa Eleonora Carta nell’introduzione, nella quale l’autrice sottolinea come comunque Sciascia “celebra” il genere e, in qualche modo, “riabilita” la propria conseguente passione, forse anche per codificare regole che i propri gialli cercarono di sovvertire, scomporre, rovesciare. Nella sua “storia” Sciascia tratta Poe, Conan Doyle, Van Dine, Freeman, Agatha Christie, Hammett, Chandler, cita brevemente altri esemplari colleghi e ricorda, a contrasto, solo Greene, Bernanos, Gadda (e Borges) fra “i grandi scrittori” a lui recenti, “che, per divertimento o congenialità, hanno scritto dei gialli”. In fondo utile la cronologia della vita di Sciascia e l’indice dei nomi di persona e dei titoli citati.

Valerio Calzolaio

Breve storia del romanzo poliziesco di Leonardo Sciascia
Con una introduzione di Eleonora Carta
Letteratura – Graphe.it Perugia, 2022
Pag. 43 euro 6,50

Pomodori  verdi fritti al caffè di Whistle Stop

Pomodori verdi fritti al caffè di Whistle Stop

Pomodori verdi fritti al caffè di Whistle Stop.

Non sembra anche a voi che queste parole suonino?
Io non lo so come, ma ci sono finita dentro a questa musica.
Irrimediabilmente attratta.
L’ho sentita da qualche parte nel mio corpo. La testa forse, le vene o in un battito diverso.
Così, ho letto il libro di Fannie Flagg.
Alle prime venti pagine mi son chiesta perché non l’avessi mai letto prima.
Quando ho terminato, la domanda si è rafforzata ma tra le mani ho avuto anche la risposta: perché il tempo è questo.
Semplice, come sempre quando si tratta di libri.
Perché avevo bisogno ora di Whistle Stop. Di tutti i suoi abitanti, dei vagabondi, del suo caffè pulsante, della posta che diventa giornale, della famiglia Threadgood, di Troutville, di Idgie.
Ne avevo necessità come ce l’ha Evelyn Couch, senza saperlo.
Evelyn che ascolta Ninny Threadgood alla casa di riposo, raccontare il passato che si mescola al presente. La felicità e la nostalgia.
E allora sembra di scoprire e insieme conoscere da sempre l’Alabama degli anni venti-trenta, di sentirne tutto il fascino.
Mi sono sopraggiunte tre assonanze in lettura, due spontanee e una indotta, grazie al filo di continuità che lega l’ArgoCircolo Letterario ai libri.
Mi è sembrato di ripercorrere le pagine e le strade de “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee. Idgie Threadgood e Scout Finch, indomite paladine della giustizia, quella vera.
Ho trasposto Whistle Stop nella fantasia del Connecticut, precisamente a Stars Hollow, dove vivono le ragazze Gilmore e tutti quei personaggi come Sukie, Patty e Babette, Luke, Taylor, la signora Kim, che fanno di una piccola cittadina un’unica grande famiglia.
E non avevo visto, finché non me lo hanno fatto notare appunto, la somiglianza con “Fai piano quando torni” di Silvia Truzzi. Anche qui, un forte legame, improvviso, tra chi porta la memoria in mezzo alle rughe, sulla pelle invecchiata delle mani, nelle parole. E chi la raccoglie nel cuore.
Pomodori verdi fritti, oltre a far venire immediatamente voglia di cucinarli, è uno di quei libri che non passa. Che ti scalda, ti scioglie e ti rinfresca. Che fa sorridere quando sul giornale Dot Weems oltre alle notizie ufficiali, ne approfitta per lamentarsi della sua dolce metà. Che ci ricorda l’importanza di essere generosi e caparbi. E fa commuovere, quando tutto scorre, quando il tempo cambia ma non cancella i ricordi e crea nuove cose.
È uno di quei libri che, una volta letto, sarà anche tuo, per sempre.
E ogni tanto è bene che venga fuori… TOWANDA!!

©Erika Carta

L’eclisse di Laken Cottle. Luce e Buio.

L’eclisse di Laken Cottle. Luce e Buio.

Il 2020 è stato l’anno che tutti sappiamo.

Che ci ha dato in pasto l’illusione di un tempo fermo mentre tutto, in verità, ha continuato il suo ruzzolare in avanti.

Mi rivedo in spiaggia, a metà d’agosto di quell’anno, lontana dalla bolgia con soltanto il mare libero davanti. E un libro.

L’estate che sciolse ogni cosa” di Tiffany  McDaniel. Atlantide Edizioni. Copertina bianco lattiginoso e raggi di sole.

Pagine dense di male eppure così folgoranti nella loro bellezza da riuscire, non solo a non appensantirmi, ma addirittura a farmi intuire la luce. Che ancora mi porto dentro.

Non riesco a farlo quasi mai ma il 2020 risulta più digeribile se categorizzato, etichettato.

Il mio 2020 è anche questo: L’estate che sciolse ogni cosa.

Poi arriva “L’eclisse di Laken Cottle”. 

Copertina nera con luccichii bianco argento in rilievo.

Buio totale.

Ancora da sedimentare ma con urgenza di scriverne.

Ormai ho familiarizzato con la scrittura di Tiffany McDaniel. Sembra che ogni libro sia una porta per la sua anima e di contro, per la propria.

Comunicanti.

Non graffia, affonda.

Credo abbia un dono (e non sono l’unica a crederlo) disarmante nella sua semplicità e vitale, per me: sa raccontare storie.

Chi racconta le storie governa il mondo”, come recita un vecchio proverbio della tribù degli Hopi. 

Laken Cottle e il buio.

Due protagonisti? 

Inizialmente si ha l’impressione di conoscere le vicende di Laken, bambino e adulto, mentre l’oscurità avanza ai lati della storia.

Inghiotte intere città, stati, persone. 

L’immagine mi riporta anch’essa al tempo infausto e incomprensibile che abbiamo vissuto e che continua a imperversare cambiando soltanto modalità di buio.

Dalla Spagna, il buio galoppa come un colossale toro nero in Portogallo, dove la gente sbarra le porte e spranga le finestre credendo così di tenere a bada l’invasore oscuro. Ma questo buio affronta le porte chiuse e i muri resistenti con la stessa facilità con cui falcia il grano in un campo. […] Le donne si fermano, osservano questo buio che rotola verso di loro, i cesti non ancora completati cadono per terra; puntano le dita al cielo nella lingua condivisa della paura.

Ma a un certo punto ci si chiede: cosa stiamo leggendo?

Domanda che rimane marginale perché si viene attratti dal vortice di parole che richiamano immagini nitide quanto bizzarre.

Se stessi raccontando il mio pensiero sul libro ai gruppi di lettura In Libro Veritas dell’ArgoCircolo Letterario, direi che ci ho visto il genio folle di Stephen King, le atmosfere gotiche di Carlos Ruiz Zafón… e qualcuno mi avrebbe risposto che c’è tanto anche di Neil Gaiman.

Nella McDaniel riemergono temi come il forte senso di colpa, la violenza, il male che contamina, la rimozione, l’autonarrazione, la completa solitudine, la domanda senza risposta verso qualcosa di più grande, la ricerca di redenzione, d’amore.

Un bisogno talmente forte, viscerale, da cercarla con gli occhi la luce.

Fissare il sole a occhi nudi significa intravedere la nostra natura mortale. Una luce così potente: possiamo esserne accecati e provare quasi gratitudine. Perché, grazie a quella luce infuocata, stiamo entrando in un regno abitato dagli dèi e dalle creature che respirano fuoco. Esistono poche cose degne come la luce del sole; e mentre Laken fissava quel bagliore intenso, sentì in qualche antica fessura della sua anima la dolce carezza dell’esplosione celestiale. Il sole, una promessa che c’è stata data.

E tutto questo è raccontato con originalità e maestria. Così vivido, vero e brutale da avere un impatto accecante.

Difficile staccare gli occhi dalle pagine. Anche se fanno male, anche se verso la fine saprai dove andranno a parare.

Anche se l’eclisse sarà totale. E permanente.

Questo pensavo quando ho chiuso l’ultima pagina.

Buio.

Invece, ora che scrivo, proprio mentre succede, mi accorgo che ancora una volta, anche questa volta, sono riuscita a trovare la luce che interessa me. E che sono sicura mi leghi in qualche modo a Tiffany McDaniel.

È nell’oggetto rettangolare e profumato di carta che in questi (troppo pochi) giorni ha pesato sulle mie mani, alleggerendo il resto. È in questa frase:

“Di tutte le cose che ci sono state date, proclama il Re Sole a gran voce, ignorando le urla di Laken, di tutte le cose che abbiamo ereditato dal primissimo uomo, è forse la nostra immaginazione, la nostra mente, a essere la più preziosa. Siamo capaci di dipingere un uccello con le nostre mani, ma è con la nostra mente che riusciamo a farlo volare.”

© Erika Carta

Lettere d’amore in dispensa

Lettere d’amore in dispensa

Dargen D’amico nella sua canzone di Sanremo, “Dove si balla”, a un certo punto dice: 
“E non si può fare la storia se ti manca il cibo.
Tu mi hai levato tutto tranne l’appetito”.
Sorrido ogni volta che lo sento. Perché, per me quel Tu è l’Ansia. Che stava per rovinarmi uno dei rapporti più belli, sinceri, gratificanti e duraturi della mia vita: quello con il cibo, appunto.
Ho vinto io.
Beccati questa, bitc*
E così, oggi apro la mia dispensa. E cosa trovo? Popcorn e vino (alla Olivia Pope) e… un libro. Silvia Casini Raffaella Fenoglio che parlano d’amore e di ricette.
Il binomio tra cuore e pancia è cosa nota. Ma c’è un altro aspetto che mi ha colpita: 

[…] che usiate o meno un pizzico di magia in cucina, c’è da dire che dietro al mangiare, vi è un desiderio di comprensione umana. Jacques Lacan, Psicologo e filosofo francese del 900, la pensava proprio così. Infatti, soleva affermare che a monte della domanda di cibo, ve ne era una simbolica di amore e di comprensione […] E come ci ricorda Marcel Proust, dietro all’atto del cibarsi vi è anche il desiderio di ricordare. È esemplare come di fatto il piatto preferito di un individuo sia collegato a un determinato ricordo. Nutrirsi è quindi anche memoria […]

Comprensione e memoria. Cosa può esserci di più romantico? Ve lo dico subito: i dieci ingredienti afrodisiaci, selezionati per questo racconto di cose buone.I menù pensati per due, “fatalmente”. E le parole, che sempre danno forma e sostanza.

Allora scelgo ciò che più mi ispira e apparecchio la tavola con “un runner” e “un centrotavola naturale con frutta e bacche di stagione”. Alla luce di una candela alla vaniglia leggo Poesie d’amore di Nazim Hikmet. È tutto nella mia testa, per ora. Siamo io e me. E questo appuntamento galante con l’amore ritrovato. Eppure, aggiungo un terzo aspetto a comprensione e memoria: condivisione. Trema amore, tremate familiari e amici, perché presto, subirete i miei tanto famosissimi quanto fallitissimi esperimenti culinari. Confido che seguendo alla lettera un libro come questo, saprò stupirvi e deliziarvi. Dalla forchetta alla parola. 

Antipasti 
Galette di fragole, feta e timo. All colours gluten free 

Primo
Gnocchi con crema alle mandorle. Delizioso gluten free

Secondo 
Tagliere di formaggi con marmellata di peperoni e peperoncino  Frizzante

Contorno 
Avocado: quanta bellezza ho visto. Quanta meraviglia ho sperimentato. Quanta esistenza piena di suggestioni sono stata. Evocazioni somiglianti al segreto della mia musica interiore. Perché io sono questo amore.
Gourmand

Dolce 
Fichi : L’angolo di paradiso però, rimase intatto. Reggeva soddisfatto tegole, armonia e presenze. 

Tra un’esplosione di luce e una caduta, dal mare al ,faro per tutte le vie, nei templi e nell’aria, squarciò lastre di felicità e di essenza. 

Sorpresa

Lettere d’amore in dispensa.
Silvia Casini & Raffaella Fenoglio

Stappo una bottiglia di Ferrara Greco di Tufo Vigna Cicogna.

Brindo a voi e a questa vita. Pace, amore e gioia infinita
Negrita 

©Erika Carta

Breve storia del romanzo poliziesco

Breve storia del romanzo poliziesco

Le brevi storie di cui Graphe.it ci fa dono sono un po’ come le giornate che sembrano primavera a febbraio.
Inaspettate e luminose, vorresti non finissero tanto presto. 
Ma come insegna la frase che dà voce alla collana: parva scintilla magnum saepe excitat incendium. 
Una piccola scintilla.
Breve storia del romanzo poliziesco. Leonardo Sciascia.
Impreziosito da un’introduzione di Eleonora Carta.
C’è un filo che li lega, perché conosco Eleonora e sono certa che come Sciascia, ha avuto “un’adolescenza e una prima giovinezza trascorse in compagnia della vorace lettura” di gialli.
Che sempre continua, affiancando il suo lavoro di autrice.
In veste analitica, in questo breve saggio, ci introduce alla storia del romanzo poliziesco, segnalando il punto di confine su cui Sciascia opera magistralmente.
Non più il giallo declassato a mero passatempo, a “meditazione senza distacco” ma “uno strumento d’elezione per raccontare la società e i suoi mali.”
Cuore delle riflessioni di Sciascia, che si aprono qui con un ritratto di Giacomo Putzu, l’assunzione di significati del poliziesco, nel tempo e nello spazio. 
Analisi, denuncia, persino frustrazione. 
Pensiero critico.
Tutt’altro che lettura passiva. 
Il ruolo dello scrittore che inizia a cercare attivamente la verità, identificandosi con il personaggio tanto da riconoscere eguali il metodo di indagine e il metodo di scrittura, come per esempio in Maigret e Simenon.
Da Poe a Christie, da Chandler a Spillane, l’evoluzione delle figure di investigatore e aiutante, di poliziotto e delinquente. Personaggi che diventano “tipi”.
Personalmente, mi ha colpito tantissimo il paragone con le maschere delle commedie d’arte.
Ma se dovessi riportare ogni cosa che ha fatto breccia in me, vi racconterei il libro con parole tutte mie e non ne varrebbe la pena. 
Perché ci hanno pensato Leonardo Sciascia, Eleonora Carta, Giacomo Putzu con la sua arte e la la Graphe.it a liberare questo concentrato di bellezza e conoscenza.
Di meraviglia.

© Erika Carta

Piacere mio, Cosimo Piovasco di Rondò.

Piacere mio, Cosimo Piovasco di Rondò.

Al biennio delle scuole superiori continuò la mia fortuna, o il mio destino forse, nell’incontrare insegnanti di lettere uniche nel loro genere. 

La professoressa Liliana non era una che dettava titoli e compiti a caso.

Lei, in classe, faceva letteratura. Come in una sorta di trance narrativa, ci portava libri, li raccontava. Liberava le storie tra i banchi, collegava le vite di questo e quell’autore, ci insegnava a riconoscere lo stile, il tempo. Ascoltava, leggeva. 

Difficile non rimanere colpiti dalla sua evidente passione di lettrice.

Era un piacere starla a sentire, ancor più se nel sangue ti scorreva questa identica, meravigliosa follia.

Pamela o la virtù ricompensata , Candido, La ragazza di Bube, Due di due, La metamorfosi.

E ancora Verga, Pirandello, Giuseppe Dessì.

E poi… La trilogia di Italo Calvino.

Non è tutto rose e fiori. 

Quanto ho odiato Il visconte dimezzato, Il barone rampante e Il cavaliere inesistente.

Una noia mortale.

Che mi piacesse o meno ero stata educata a esser ligia al dovere. 

Ma quella volta, la volta in cui avrei dovuto eseguire la scheda di analisi de Il barone rampante, mentii. Presi la scorciatoia dell’internet, ahimè. 

Pronta, bella e non scritta da me. Giusto la modifica di qualche parola. Chissà chi pensavo di ingannare, se non me stessa.

La mia compagna e amica fu decisamente più sincera. 

“Daniela, hai fatto la scheda?”

“No, prof.”

“E perché?”

“Perché non l’ho letto”.

“E per quale motivo?”

“Perché non mi piace per niente.”

“Raccontami come mai…”

E così, chiacchierarono. Di motivazioni.  Daniela ricevette il suo voto negativo per non aver svolto il compito ma io rimasi sorpresa dal tono della conversazione: uno scambio alla pari. Senza rabbia, recriminazioni, dispiaceri.

Via il superfluo, soltanto ancora una volta, la bellezza di un’altra lezione di letteratura. 

Sono passati ventidue anni. (Potrei avere un mancamento nel pronunciare questa cifra).

Oggi, grazie all’ArgoCircolo Letterario e alle persone del gruppo di lettura InLibroVeritas, nello specifico Rita, ho girato l’ultima pagina de Il barone rampante.

L’ho letto.

Tutto.

Non vi farò la scheda di analisi, sono vecchia ormai per queste cose. 

Però vi dirò cosa ho provato. E cosa ho capito.

Innanzitutto ho finalmente compreso da cima a fondo, l’immensità di Italo Calvino.

Ho capito che i classici hanno un orologio tutto loro. 

A cinque pagine dalla fine ho sentito una stretta al cuore.

Dopo averlo evitato per così tanti anni, ora non sono pronta a salutare Cosimo Piovasco di Rondò, il barone rampante

Mi sono affezionata a lui, alla sua giovane e perdurante determinazione, alle avventure, alle emozioni.

Mi sono riconosciuta in questa sua voglia di stare nel mondo, non importa se da una prospettiva insolita, ma connesso.

Più presente a se stesso e agli altri di quanti camminano con i piedi per terra e lo sguardo pure. 

Com’è che prima mi annoiava, non lo so. 

Anche se, a questo giro, sarò sincera: qualche riga l’ho scorsa velocemente, per continuare ad arrampicarmi dove più mi piaceva.

Perché, e l’ho capito con il tempo, leggere è questo per me.

Carissima professoressa Liliana, anche se quella volta barai come la peggiore delle imbroglione, ho portato a casa il suo insegnamento.

A lei, sicuramente, non interessava la burocrazia di una valutazione (che metodo orripilante mischiare numeri e persone).

Ciò che faceva, come tutte le insegnanti degne di portare questo nome, era piantare quei minuscoli semi di conoscenza e innaffiarli giorno dopo giorno.

Il resto è spettato a noi. 

E da me c’è un giardino di terra, cielo, alberi, fiori, frutti, inchiostro e persone.

E grazie. 

Quel frastaglio di rami e foglie, biforcazioni, lobi, spiumii, minuto e senza fine, e il cielo solo a sprazzi irregolari e ritagli, forse c’era solo perché ci passasse mio fratello col suo leggero passo di codibugnolo, era un ricamo fatto sul nulla che assomiglia a questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s’intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito”.

©Erika Carta