DELITTO ALLA BAIA D’ARGENTO

DELITTO ALLA BAIA D’ARGENTO

Circa un anno fa, era luglio, feci la conoscenza di un commissario di polizia arguto e sensibile, Alvise Terranova.

Si occupava di un “Omicidio a Carloforte”, muovendosi tra la vita e la morte di un parroco misterioso, tra colazioni abbondanti senza cui la giornata non poteva cominciare, i dischi di Tom Waits, il buon vino, il passato prossimo, le donne.

Tutto avveniva dentro le pagine profumate di un libro, edito da PIEMME e nato per mano o meglio, per penna di Antonio Boggio. 

Dopo legittima attesa, il Commissario Alvise Terranova è tornato a noi, avidi lettori.

Insieme a lui emerge di nuovo, dal mare, la nostra isola nell’isola che si fa sempre più grande, sempre più vicina, come vista dall’arrivo in traghetto.

“Erano le otto e quaranta, il sole era appena tramontato ma il nero della notte non aveva ancora coperto lo specchio di mare tra le braccia del porto. I lampioni appena accesi sembravano smarrirsi in quell’atmosfera ovattata dove il giorno non se n’era ancora andato del tutto. Le automobili si susseguivano sul lungomare, la gente a passeggio sembrava attraversare un filtro pastello in un film noir anni cinquanta.

E mentre il solito allevatore paesano denuncia il furto delle solite sette galline, a Carloforte, dove non succede mai niente, succede invece che un uomo viene trovato morto.

Si tratta questa volta di un imprenditore, Giulio Mazzini, il cui corpo viene scoperto da alcuni operai una mattina di luglio, sotto le macerie di un Hotel prossimo alla demolizione.

L’Hotel Baia d’Argento.

Si apre così la vicenda madre attorno alla quale si snodano i personaggi del U Paise con le loro vite intrecciate e ogni elemento, anche il più insignificante, collegato a un altro e a un altro ancora fino a quando tutti i nodi si sciolgono, la trama si dipana e il caso viene risolto.

Ma, come ogni volta che mi accingo a leggere un giallo, ciò che mi tiene incollata alle pagine non è mai questo.

Non me ne vogliano, i lettori giallofili, né lo stesso autore se esprimo con solerzia che non mi importa chi sia l’assassino! 

A onor del vero ho seguito le indagini e i ragionamenti del Commissario e della sua squadra come fossi lì, con loro. Ho provato, come faccio sempre, ad anticipare la soluzione, cercando indizi nascosti tra le righe, mai certa del risultato fino alla fine.

Ma, ripeto, c’è dell’altro se leggo quattrocentoventi pagine senza rendermene conto, da una notte all’altra, interrompendo di tanto in tanto per un lieve bruciore agli occhi.

È come quando ci si disinteressa della meta di un viaggio perché bello, è il viaggio stesso.

Così, con questo Delitto alla Baia d’Argento ho ritrovato con gioia una vecchia conoscenza, Alvise. 

Umano in ogni sfaccettatura, così caratterizzato da riconoscerlo familiare dopo tempo.

Capace, determinato sul lavoro, critico e ironico con sé stesso e con gli altri. 

Ci sono state scene comiche in cui ho immaginato la reazione del suo viso, come fosse amico mio.

Questa volta ci ha altresì permesso di scavare più a fondo nell’anima della sua persona, nel passato remoto, sovrapponendo al presente ricordi pieni di quella nostalgia agrodolce che è tipica degli anni novanta (forse perché la provo anche io!)

Nei suoi ricordi ora poteva vedere le biciclette sfrecciare, le ginocchia sbucciate, i copertoni roventi sul cemento accidentato. Allora l’entusiasmo era una cosa semplice.

Ci ha consentito di entrare in punta di piedi nella notte che si porta dentro. 

Ma sapete? Si dice spesso, per chi è troppo allegro, che c’è sotto qualcosa. 

Non sono più d’accordo. 

Non si deve nascondere proprio un bel niente.
Chi ha luce, ha buio.

E sono uno al fianco dell’altra.

Ed è questo, forse, che rende persona il personaggio di un libro e tangibile tutta la sua storia, passata e presente.

Aveva sempre diviso la sua vita in due parti, un po’ come i vinili o le musicassette. C’era il lato A, quello fino a 14 anni, la sua vita a Carloforte prima della partenza per Genova. E poi c’era il lato B, che andava da quel momento in poi. Si domandò se magari ci fosse anche un lato C, il ritorno a Carloforte, l’autunno precedente. Oppure un immaginario demiurgo aveva rigirato il disco sul lato A e lui era tornato a vivere in quella dimensione spazio-temporale che gli sembrava lontanissima?”

© Erika Carta