Tutte le volte che sono entrata in libreria in questo nuovo anno, mi sono soffermata su un libro Feltrinelli con la copertina dallo sfondo rosso sangue, rosso fuoco e raffigurato, lo scorcio di una rampa di scale. 

“L’anniversario” di Andrea Bajani.

Non l’ho mai comprato, fino a ieri. 

Perché, come ho annunciato rientrata a casa con il bottino: “Ho provato a evitarti come si prova a evitare la certezza di un dolore. Ma giusto qualcosa intorno a me, grida questo nome e questo titolo. Bene, è il momento di farmi male.

O di scoprire che la lucidità è una grande amica.”

Qualche ora dopo, nel cuore della notte, dopo svariate pagine e svariati post-it fucsia, ho scoperto che no, la lucidità non è proprio tra le mie amicizie migliori. Mai potrà esserlo di fronte a un argomento del genere. E di questo ne ho solo affinato la consapevolezza (possibile parente, più accessibile, della lucidità.)

La dice lunga la mia lacrima sul viso, anche se sdoganata in mille e uno altri scenari, devo dire che quando leggo mi capita molto più di rado e probabilmente per ciò, molto più intensamente. 

Quella sì che ha luccicato.

Questo libro mi è piaciuto perché io, questo libro, l’ho capito. 

A partire dalla ragion d’essere del titolo: anche io ho un anniversario congiunto, segnato sul calendario ogni 31 marzo e denominato… “Free Day”. 

Mi spiego meglio però, perché lungi da me essere presuntuosa.

Il punto è che so esattamente di cosa, l’autore, sta parlando. 

Lo sa il mio stomaco. E anche il mio sterno.

Nel resto del tempo, in quei martedì mattina, c’era dentro molto, come è facile immaginare. Cominciammo in realtà con quattro o cinque giorni a settimana, perché ne sentivo l’esigenza. Mi disse che avrei provato un dolore acuto sullo sterno per qualche tempo, che sarebbe stato a tutti gli effetti un intervento chirurgico, pur non lasciando tracce visibili, almeno sulla cute. Il dolore ci fu e fu lancinante. Mi chiesi se non fossi andato troppo oltre. Ma non era una domanda che mi potevo fare, non c’era verso di tornare indietro – uscire correndo dalla sala operatoria -, e così proseguii fino a che mi diede un po’ di tregua. Poi diradammo la frequenza, e le sedute passarono da un’ora al paio d’ore, qualche volta l’intera mattina.”

Ancora la consapevolezza, questa volta amara, di non essere l’unica, certo. 

Sono pagine che fanno breccia dentro ogni parte lesa di un sistema patriarcale collaudato, autorizzato, infinito.

Mio padre aveva infatti fondato la sua gestione del potere sull’intimidazione, sull’allusione cioè a scenari violenti che si sarebbero verificati se il nostro agire non fosse stato conforme alle sue volontà. E siccome questa sua gestione era la conseguenza di un disturbo tanto profondo quanto non diagnosticato, e rispondeva quindi a una logica allucinata che si saldava alla consuetudine patriarcale moltiplicandone gli effetti, il senso di minaccia era la costante della nostra vita quotidiana.”

In linea generale è un argomento fruibile a tutti, anche perché trattato innumerevoli volte.

Ma è nel particolare che si annida la differenza. Nel racconto fermo e apparentemente semplice di gesti, ruoli e dinamiche quotidiane ripetute uguali alla base, lungo anni e anni. 

A distanza di tanti anni appare un meccanismo più volte collaudato e poi perfettamente funzionante. La condizione essenziale era che, a perdono concesso, poi seguisse la vita come prima, che quell’assoluzione cancellasse ogni traccia di ciò che era avvenuto. L’assoluzione era anzi l’unica via, con quel tanto di rituale che conteneva, perché la vita ritornasse.

E soprattutto, nell’immediata connessione per averle vissute e in sostanza, rileggerle identiche sul libro di un estraneo che ne riattiva la memoria corporea. 

A detta dall’autore, non sono nemmeno tutti ricordi veri. 

Alcuni si leggono reali perché troppo nitidi per non esserlo. Dati alle pagine come schiaffi, stilettate. Altri sono abbozzati, solo intuiti, schermati dal filtro del proprio punto di vista o completati con l’immaginazione.

Certi, sicuramente, rimodulati dal balsamo della scrittura.

Questo accedere, attraverso l’invenzione, a ciò che il ricordo non possiede, è precisamente la forza brutale del romanzo. Che si disinteressa quasi sempre del reale e fornisce sempre il vero.”

Ecco, a questo forse non credo del tutto. Ma perché ancora, comprendo appieno un altro aspetto: il duplice impulso a raccontare e il senso di colpa, di vergogna che si provano. E da qui, il meccanismo di difesa, riconosciuto o meno, nel rimarcare frequentemente che “è un romanzo”. Nelle vite come questa ci sono momenti di riflessione in cui viene da domandarsi se le cose siano successe veramente, se l’inferno domestico sia stato reale, perché affiancato da immagini di vita felice con le stesse persone che quella vita la logoravano, distruggendola dalle fondamenta.

Credo sia una delle caratteristiche più complicate da capire, prima e a cui mettere un punto di accettazione, poi.

Ho lasciato le lacrime libere di percorrere questa strada conosciuta, di abbandonarsi alla forza di gravità.

Ho sentito dolore e tenerezza a livello profondo, davvero inspiegabile a chi non li ha attraversati. 

Ma ho avuto anche un nuovo prezioso contesto condiviso di messa in pratica del distacco. (Altro parente, più funzionale, della lucidità). E l’ennesima conferma a specchio della cura che ci siamo concessi. 

Ho riconosciuto la gratitudine verso la sincerità degli intenti di scrittura, la stessa con la quale io ho letto e ora, a mia volta, scrivo.

Erika Carta