Mi sa che siamo tutti Livio. Mi sa che siamo anche Anäis, Crema, Marco Aurelio, Dafne, Marcellino. Quelli che lo sono stati negli anni ottanta, quelli del novanta, del sessanta e quelli che lo sono adesso.

Giovani. E indegni.

La strada che abbiamo scelto per essere noi stessi è piena di insidie, dolori e privazioni, – ci dice prima di allontanarsi con Jannik, – fatevene una ragione, siamo indegni. Punta su di me il suo sguardo. – Ma voi siete giovani.”

Perché a quell’età, in qualunque epoca, ogni cosa è fuori misura, fuori portata. Di ogni scelta uguale e contraria a sé stessa, di ogni non scelta anche, a essere tangibile è sempre l’inadeguatezza. C’è un notevole abisso tra la convinzione degli adulti che i giovani pensino sia tutto dovuto e i giovani che invece si sentono come se non gli spettasse proprio nulla, come se non meritassero nulla, per chissà quale colpa tramandata. E vivono i giorni uno per uno, attaccati al tempo e allo spazio, incomprensibili perché puoi passare dall’essere fricchettone all’essere punk in meno di cinque minuti lontano da casa oppure vivere lento come un’estate in Sardegna passata in punizione chiuso in camera.

Francesco Abate, alla presentazione del suo  nuovo libro, “Gli indegni”, per la Fiera Off della Fiera del Libro di Iglesias, si racconta prima di raccontarci il romanzo. E mi colpisce molto la frase riportata da una conversazione tenuta con la sua editor: “Francesco, tu sogni storie. Non puoi smettere di scrivere.”

E meno male! Mi si è riempito il cuore di commozione e gratitudine.

La storia di Livio è quella di un ragazzo che vive e studia a Cagliari, al liceo classico, negli anni ottanta. Racconta della sua città, della scuola, della sua famiglia. Degli amori, delle amicizie. Del bullismo quando ancora non si chiamava così, dei viaggi, delle musicassette, delle radio indipendenti, delle vespe e dei ciao. Della musica, delle droghe, dell’Aids.

È la storia delle sue fughe, dei suoi ritorni. 

L’entusiasmo è un sentimento che ti disintegra l’anima, se avvilito. Per questo provo e riprovo a tenere a bada questa mia grande debolezza. Invano.”

Io sono nata a metà di questi anni ottanta raccontati da Abate. Ho vissuto un pezzo di infanzia nei suoi ultimi cinque, testimone della loro dipartita. Ma penso di portarmeli addosso comunque, miscelati nel corredo genetico ai miei anni novanta e a quelli spaventosi dopo il duemila che ancora adesso non ho ben capito com’è che si vivono.

Leggendo però, mi sono sentita estranea a tanti aspetti del contesto che fanno la differenza se non li hai vissuti in prima persona. È quello che fa una storia, no? E questa, mi ha trascinato in un tempo e in uno spazio che erano a due passi da me, di cui però ho avuto sentore solo ai margini. 

E allora no. Non sono Anäis non sono Crema, Marcellino, Dafne, Marco Aurelio.

Non sono Livio. 

Ma sono un po’ tutti loro, ora che li ho incontrati tra le pagine di questo libro, ora che rimarranno dentro di me.

Noi siamo gli incontri che facciamo. E io sono impastato con la compassione di Cesare, le lacrime d’amore di Jannik e delle ragazze sbeffeggiate del Galaxy. Sono frutto dei pettegolezzi di Babaiola, della freddezza di Erika, della bontà di Diddi. Ho il senso della giustizia di mio padre, e so essere rognoso come mia madre. Ho l’entusiasmo dei ragazzi di Radio Alter e l’ostinazione di Dafne. Ma questa sera, soprattutto, sono figlio della barrosìa del Ragioniere.”

Erika Carta